Ogni anno in cui la stagione fredda volge al termine, anche se a dir la verità negli ultimi anni non si potrebbe proprio parlare di stagione fredda, ci si pongono molti interrogativi rispetto alla gestione del proprio terreno. Domande sulla qualità delle lavorazioni svolte, sulla capacità dell’agricoltore (o dell’orticoltore) di avere gestito in maniera ottimale i terreni.
Avrò scelto le tecniche corrette? Sarò riuscito a salvaguardare, a proteggere la preziosa sostanza organica che da sola mi può garantire fertilità, drenaggio, aerazione, vitalità, accumulo di nutrienti per le piante, sito di sviluppo per funghi e batteri utili alla vita delle piante e tante altre cose che ormai chi legge queste righe ben conosce?
Di fronte alla ripresa vegetativa, a dire la verità, rimaniamo sempre tutti stupefatti.
Ci troviamo spesso di fronte a terreni maltrattati, calpestati brutalmente da trattori enormi con attrezzature pesantissime.
Terreni in cui sono state raccolte colture invernali quando il terreno era troppo bagnato ed era inevitabile che le impronte dei pneumatici delle macchine offendessero il terreno in profondità.
E poi ci troviamo di fronte, anche se a dire il vero in questi ultimi anni molto meno, eventi piovosi che dopo poche gocce d’acqua trasformano il campo in acquitrini dovuti alla compattazione degli strati superficiali e alla mancanza di un’adeguata porosità che consenta un opportuno drenaggio delle acque.
Ciononostante continuiamo a vedere erbe (che noi purtroppo chiamiamo infestanti) germinare, crescere in modo anche vigoroso infilare le loro radici in questi terreni compatti, la cui struttura è stata distrutta da un’agricoltura intensiva.
Però mi voglio soffermare a ragionare sul significato del termine “intensiva”.
A dire la verità questa non si può definire “agricoltura intensiva” perché anche una buona, un’ottima agricoltura, orticoltura biologica può essere intensiva nel pieno rispetto del terreno.
Intensivo non vuol dire per forza dannoso. Intensiva non vuol dire per forza eccessivo.
Intensivo, certo, vuol dire non seguire un ritmo naturale “come se non ci fosse l’uomo”.
Nessuna agricoltura può essere naturale dato che comunque c’è l’intervento dell’uomo.
Stiamo parlando di agricoltura di rapina, di agricoltura senza rispetto, fatta da agricoltori che non sono capaci neanche di farsi i compiti! E questa è la cosa peggiore, questo è il peggior modo di fare agricoltura!
Le erbe infestanti che nascono nei terreni maltrattati ci insegnano che tutto può essere recuperato. Anche i disastri che combiniamo attraverso i fertilizzanti chimici. Possiamo intervenire per ridurre, eliminare gli effetti delle lavorazioni pesanti. Questa forse è anche la motivazione di chi continua a rovinare la nostra terra, la possibilità di recuperarla rapidamente.
Tra l’altro si è imparato, leggendo anche queste pagine, che l’uso eccessivo di fertilizzanti corrisponde ad uno spreco eccessivo e, soprattutto, ad un costo inutile!
Ormai ripetono ad ogni tipo di convegno che in un terreno non dotato di sostanze organiche, in un terreno non vitale, la stragrande maggioranza delle sostanze distribuite dei concimi chimici apportati se ne vanno perché dilavati dalle piogge, per l’incapacità del terreno di trattenerli.
Le lavorazioni troppo pesanti espongono il terreno a grandi perdite di umidità e vitalità.
Pensate ad esempio ai sempre più frequenti video Youtube dove grossi trattori trainano enormi aratri multivomere (aratri con molti versoi) portando alla luce un’enorme quantità di lombrichi che vengono divorati da stormi di colombi e ultimamente gabbiani.
Poi capita che qualcuno provi a sperimentare delle cose che l’uomo conosce oramai da secoli. Capita che qualche agricoltore semini una coltura non per il suo raccolto ma per il suo lavoro.
Chi ha studiato un po’ di agraria e di forme di allevamento animale sicuramente ricorda le razze bovine a triplice attitudine, ovvero allevate per ottenere tre tipologie di prodotti: il latte, la carne e il lavoro. Erano le vacche che passavano le giornate a trainare gli aratri e poi in stalla a dare il latte e, a fine “carriera” (cioè a fine vita) davano la carne alle famiglie fino ai primi anni del Novecento. Dovremmo quindi arrivare a parlare di specie vegetali a duplice attitudine: produzione e lavoro. Lavoro nel senso di sostituire l’agricoltore nella preparazione del terreno.
Ma qual è stato l’intervento eccezionale che ha sconvolto questo disastro riportando alla naturalità un terreno impoverito? È un sorgo seminato in primavera, che viene trinciato durante l’estate due volte e poi prima dell’inverno viene coricato al suolo.
In un’operazione che viene chiamata terminazione perché sostanzialmente con un rullo dentato (crimper) si piegano le piante e si schiacciano i fusti rompendo i canali linfatici che portano l’acqua verso le foglie e dalle foglie la linfa verso le radici. Le piante muoiono in campo distese a terra garantendo per la fase autunnale invernale una copertura al terreno. Le radici si degradano lentamente garantendo vitalità microbiologica prolungata nelle gallerie che rimangono dopo la trasformazione di queste sostanze vegetali in terreno di sviluppo per funghi e batteri decompositori.
Questa copertura garantisce il mantenimento di un’oscillazione di temperatura più ridotta rispetto a quell’aria ambientale (quindi meno freddo d’inverno).
Ecco allora che i microrganismi riescono a lavorare per quasi tutto l’inverno nonostante fuori faccia freddo, riescono a degradare la sostanza organica per cui la coltre di residui di vegetali prodotte dalle prime due macinazioni (dalle prime due trinciature) ora non c’è più e rimane solo un po’ di paglia in superficie ma sotto, alzando i residui vegetali, c’è la vita!
Si trovano lombrichi per ogni volta che si pianta la vanga.
In terreni dove magari prima di trovare un lombrico dovevi piantare la vanga in dieci, quindici posti diversi! Ma la sorpresa più grande è proprio quella di piantare la vanga! Perché lo stesso terreno lasciato nudo (qualche metro più in là) non ti fa piantare la vanga perché lì non c’è stato il sorgo che con le sue radici ha disgregato le zolle di terreno, lì non c’è stato il lombrico che ha lavorato trasportando verso il basso i residui vegetali presenti in superficie e regalando a tutto il profilo di terreno un’enorme varietà di flora microbiologica. Nel giro di pochi mesi un terreno ritorna ad essere vitale!
E allora per favore non distinguiamo “intensiva” dall’agricoltura “estensiva” perché su quel terreno se lo gestiamo bene possiamo farci tutte le colture che vogliamo dandogli il tempo, dandogli modo, dandogli le coltivazioni che sono necessarie per mantenerlo vivo.
Distinguiamo piuttosto l’agricoltore “stupido” dall’agricoltore “intelligente”.