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Le piante del bosco: Fico comune

Ficus carica L. ; Fam. Moraceae
Fioritura maggio-settembre – Parti raccolte: foglie e frutti – Tempo balsamico: estate.

E’ un albero caducifoglio, alto anche una decina di metri, originario dell’Asia Minore e coltivato fin dall’antichità nell’area del Mediterraneo per le sue carnose e zuccherine infruttescenze. Il fusto, avvolto da una corteccia grigio-blu, porta delle grandi foglie semplici, alterne e di forma molto variabile provviste di 3-5 lobi più sviluppati verso l’apice e con minuscoli fiori apetali, posti all’ascella di una foglia e riuniti in infiorescenze che hanno un involucro a forma di anfora con piccola apertura. L’infiorescenza matura è rappresentata dal fico, definito dagli studiosi di botanica siconio, di un colore verde, marrone o viola scuro, talora con striature bluastre, lunga circa 5-8 cm, con la parte carnosa rossa o verde giallastro. Un pianta fruttifera, simbolo, nei tempi biblici, di libertà, di prosperità, di vita gioiosa e ampiamente  citata nei Vangeli e nel Corano, come realtà botanica e come simbolo della fertilità, della vita serena. “Nessuna nazione alzerà la spada contro un’altra e non impareranno più l’arte della guerra. Siederanno ognuno tranquillo sotto la sua vite e il suo fico e più nessuno li spaventerà” (Zaccaria 3,10).

Un albero quindi che si distende nella storia per restituire in una sommessa elegia il lento passo delle stagioni, le ombre, i colori, gli odori, i profumi nella loro naturale sobrietà e con cui è possibile compiere un Grand Tour nel tempo e nello spazio euganeo che è stato un punto di incontro tra gusti gastronomici, panorami geografici, memorie, ricordi, nostalgie. Di questa pianta, Beguinot (1909-1914) nella Flora Padovana annotava per la prima volta la sua spontaneizzazione all’interno dei boschi euganei: “Coltivato in molte varietà e qua e là spontaneo (= F. caprificus) nei versanti meglio esposti degli Euganei.” La fito-etnobotanica euganea ne ricorda alcuni usi: ad Arquà Petrarca, Faedo un  decotto di siconio veniva usato come colluttorio in caso di ascessi dentali e stomatiti e la foglia contusa oppure il latice venivano applicate su un porro, la cui base era legata con un filo per favorirne il distacco. Era tradizione gettare lontano dalla casa la foglia perché altrimenti i porri sarebbero tornati. A Rovolon (1964), il decotto della pianta fresca veniva applicato in impacco sugli ascessi; il latice sulle punture d’insetti. La foglia contusa veniva applicata direttamente su un porro. A Castelnuovo (1973), veniva raccomandata una quotidiana integrazione alimentare con fichi freschi in caso di stitichezza.

Un po’ in tutto il distretto euganeo, l’etnobotanica ricorda ancora che, nella settimana prima di Pasqua, si confezionava con il midollo dei giovani rami, una colombina pasquale, cui si dipingevano di rosso gli occhi pungendosi il polpastrello dell’indice della mano sinistra con la spina del Paliurus spina-Cristi.

In storiche farmacopee si citano i frutti pettorali (fichi secchi, uva secca, giuggiole, datteri) e i frutti questuanti (fichi secchi, mandorle, uva passa, nocciole), a ricordo dei quattro ordini (francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani) che gradivano questi frutti durante la questua prima dell’inverno

BRICIOLE D’ARCHIVIO

fico2Sinonimi
Ficus. Ray.; Ficus communis Tourn.; Ficus vulgaris. Park.; Ficus sativa. Fuch..

Loco
“Loca aprica, calculosa, glareosa, interdum et saxeta amat. Eiusmodo agro cito convalescit, si scrobes amplos et idoneos feceris.”

(Esso ama i luoghi soleggiati, pieni di sassetti, di ghiaia, e qualche volta persino i luoghi sassosi. In un terreno di questo genere prende forza in fretta, se tu gli fai però delle fosse ampie e adatte.) (Columella)

“Nasce di seme senza dubbio il fico… ma appigliasi tanto bene di ramo levato dall’arbore e piantato in terra scassata (…) che è frustatorio il farli di seme nascere.” (Tanara)

“Intorno poi all’uscita di maggio vengono fuori i fichi fiori, così detti perché, in luogo che gli altri alberi prima del frutto producono (…) un fiore molto più grosso che si sia il suo frutto, il quale viene viene sul principio di settembre; e questo dura un venticinque o trenta dì e non più; e a Vinezia il chiamano “fico madonna”. (Castelvetro, p. 7)

Cocina
“Si prendono i fichi che abbiano principiato ad appassire nella propria pianta o pedale e senza sbucciargli si aprono dal fiore fino al gambo, non si separano, si mettono al sole e quando sono alquanto prosciugati si mattono degli anasi e si riserrano non soli ma appaiati con trovargli di grandezza simile, potendoli unire anche in quattro a croce di cavaliere; di poi si serrano e riserrati si rimettono sopra  qualche canniccio al sole, senza dar loro il forno e tuttavia un poco pastosi si mettono a suoli in panieri ben calcati”. (Anonimo 1800)

“… mangiandoli non ci vuole qui ne olio, ne sale, ne altro condimento, magiando sino al picciolo e anco la scorza…” (Falcone, p. 319)

Giovamenti / Nocumenti
“I fichi non nutriscono quanto i grani e la carne, ma più degli altri frutti e più presto…” (Mattioli)

“I secchi adunque soli son buoni, ma con le màndole pellate e intiere ne compongono quantità assai grande  in forma d’un formaggio, che conservano per la quaresima (…) per maturar la tosse nello ‘nverno acquistata dall’essersi l’uomo riscaldato e subito raffreddato, i fichi secchi buoni o rancidi, arrostiti al fuoco e mangiati quando si (va) per dormire a coricare, giovano fuor di modo.” (Castevetro, p. 7)

Ricetta storica: Frictelle de fichi piene.
“Piglia un pocde amandole, et di pignoli secundo la quantità che vole fare, et pistale molto bene, et fa’ che siano bianche et nette, agiongendoli doi fiche secchi, et un poca de uva passa inseme a pistare. Poi habi un poco di petrosillo tagliato menuto et un poca di uva passa integra con bone spetie. Et questa compositione se venisse troppo stretta agiognivi un poca d’acqua rosata; et habi le fiche secche aperte et busciate dal canto di sotto, cioè dal fiore; et la impierai molto bene di questa compositione frigendola ad ascio in bono oglio, infarinandole poi un pochetto di sopra.”
(Maestro Martino da Como)


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