Tempi del cibo, tempi dellÂ’uomo

Alcuni medici e filosofi dell’antichità definirono il cibo come “Res non naturalia”, che, tradotto alla lettera, significa “cose non naturali”. In questo loro atteggiamento si alludeva al sovrapporsi dell’agire umano su prodotti presenti in natura, scelti dall’uomo, talora coltivati negli orti e nei campi, manipolati e infine trasformati mediante l’uso del fuoco.

E in effetti, il cibo non è altro che il prodotto finale di un lungo processo iniziato da quando l’uomo cacciatore, che si nutriva dei prodotti della caccia, della pesca e della raccolta di foglie, radici, frutti e semi offerti dall’incolto.

Con questo modo di agire l’uomo si presenta come un dilapidatore delle risorse spontanee del territorio. Successivamente ha deciso di diventare agricoltore, cioè in grado di osservare la natura, utilizzare alcune piante anziché altre, in breve di affrancarsi dal mondo naturale. In questi due diversi modi di comportamento, la storia registra un salto di qualità della vita. Ciò iniziò circa diecimila anni fa in quell’ampio territorio che i geografi identificano con il termine di “Mezzaluna fertile” per un insieme di motivi tra i quali il lento mutare del clima e la conseguente desertificazione di vasti spazi boschivi che imponevano problemi di difficoltà nel reperire il cibo.

La scelta dei cereali nel loro insieme viene ampiamente accertata da documenti, rinvenuti in Mesopotamia e in Egitto, che attestano un interesse per l’orzo, prima, poi il farro, il grano, le bevande preparate con quegli ingredienti, i pani lievitati e non, le gallette, le focacce, i biscotti. La successiva emigrazione dell’uomo verso l’Europa e verso l’Asia portò all’espansione anche di queste piante, scelte dall’uomo e che gli studiosi di paleobotanica definiscono piante sinantropiche, (dal greco sin = assieme, e ànthropos = uomo).

Studi di archeobotanica suggeriscono che l’inizio del fenomeno dell’espansione di queste piante sia da collegarsi sia alla pastorizia e sia all’introduzione dell’agricoltura in Europa, un processo che ha conosciuto tappe diverse e che, in una certa misura, è durato fino ai nostri giorni. Comunque il loro impatto sulla flora autoctona ha prodotto cambiamenti nella composizione del manto vegetale non solo per l’espansione di alcuni nuovi gruppi di piante ma anche per l’inevitabile declinio di altre. Con i cereali che provenivano dalle sedi originali poste nella steppa arabo-caspica e nell’Iran sono arrivate da oltre duemila anni il papavero (Papaver rhoeas), il fiordaliso (Centaurea cyanus), il gittaione (Agrostemma githago), l’anagallide (Anagallis arvensis), ecc. che sono diventate parte integrante della nostra flora. Fu così che il frumento arrivò nell’area mediterranea, il riso nell’area asiatica, il sorgo nell’area africana. Tutte e tre sono piante che identificano una civiltà e che Fernand Braudel definì “Piante di civiltà”. Con il frumento dall’Asia arrivò anche il miglio e il grano saraceno (che cereale non è), la rapa e il cece, l’anguria, il pesco, l’albicocco, gli agrumi.

Tutte queste piante furono importanti perché condizionarono anche il paesaggio tanto che gli uomini sentirono la necessità di iniziare a vivere in comunità stabili preferendo all’incolto selvaggio una spazio addomesticato ove era più facile reperire cibo, commerciare, inventare altri mestieri e avviare attività commerciali, darsi nuove regole, adattarsi alle condizioni ambientali. Si formarono città e villaggi sempre maggiori e in ogni casa attorno al fuoco, c’erano le donne, il focolare, il paiolo, la casa con i suoi simbolismi, i suoi riti, le sue tradizioni e le sue superstizioni. In questi luoghi lentamente si iniziò a trasformare i semi, inventarsi i cibi e il mangiare, da allora, non ha significato solo nutrirsi, cucinare non solo preparare il nutrimento. Attorno al paiolo e alla catena si sono sviluppati cibi, tempi e modi di alimentarsi, di conviviare, di preservare la salute, di allontanare il malocchio che, in un’epoca affrettata come la nostra, in cui non esistono più la fame e la penuria dei prodotti alimentari e la stagionalità non condiziona più la tavola, perché i prodotti arrivano da tutto il mondo, questo universo di simboli e rituali ha perso sempre più di significato e la tavola “sacra” si è smarrita, come scriveva Camporesi in “La terra e la luna”, “sia come valore di comunicazione simbolica, sia come alfabeto muto e sotterraneo affidato ai sensi”. Se ne è così andato anche il sacro rispetto del pane ed è sempre più difficile far capire il profondo significato di quanto si legge in un manoscritto del XVII secolo:

“Se per sorte vedessi i villani gettare in terra pane, sale oppure ovo benedetto se lo arrecherebbero a grandissimo sacrilegio” oppure “Quando si rassetta la tavola dopo cena, non si debbono gettar via le briciole sparse sulla tovaglia. Tutte invece van raccolte e date a buon uso, per non offender e disdegnare la Provvidenza. Le briciole disperse o sciupate, dovremmo, dopo morti tornare a cercarle ad una ad una, camminando ginocchioni sulla terra, per raccoglierle col mignolo acceso come una candeletta e per riporle dentro un cestello privo di fondo. Il pane è il corpo del Signore” .


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