Perché andare lontano a cercare le architetture della meraviglia, quando sono intorno a noi? “La me casa no ga più, no ga più el sole…”.
Così inizia una delle più struggenti cante di Bepi De Marzi, “La casa”. La casa contadina non ha più il sole che la illumina perché è stata abbandonata, lasciata sola. Da tutti.
Un tempo le case di pianura, di campagna, le case semplici insomma, erano il centro di un microcosmo che comprendeva anche la stalla con sopra il fienile, il portico e il letamaio. Poco più in là, il “brolo”, con gli alberi da frutto. Intorno i campi a vigneto, a frumento, a granoturco. Ogni mattina si apriva un ciclo che si chiudeva perfettamente alla sera. Il rifiuto animale serviva ad alimentare la terra. L’equazione “scarto = cibo” è oggi il fulcro del concetto di Sostenibilità: da realizzare nel processo produttivo industriale. Ciò accade di raro.
Abbandonate, queste architetture per la città, quanto della nostra storia abbiamo lasciato in quei mondi fatti di piccole case, una diversa dall’altra?
Quanta poesia è stata dimenticata nelle contrà?
“Tanta gente xe vegnù, ma mi resto solo …”
Chi è quella gente? Futuri compratori? E poi demolitori per rifare una casa nuova?… “Tanto ghemo comprà el terreno par poco …”.
E’ così che abbiamo distrutto, con il consenso di una diffusa mediocre cultura dell’abitare, con la scarsa sensibilità di molti tecnici, con il silenzio colpevole di tutti.
La logica della convenienza!
“Mi resto tanto, tanto solo …”
Quando si arriva in una corte abbandonata, sembra di sentire le mura parlare, chiedere di scambiare qualche parola. C’è nell’aria un senso di smarrimento, come si fosse dimenticato tutto di noi, delle nostre storie, dei nostri legami con la terra locale. Come di fronte a un albero, ci si può sedere e ascoltare il silenzio che restituisce immediatamente tutto, che fa affiorare ricordi, impressioni, anche paure. Soprattutto un mondo perduto. Per sempre.
La casa sembra chiedere di essere nuovamente abitata, perché anch’essa ha molto da raccontare.
Il contadino andava dietro casa, tagliava qualche tronco, lo scortecciava, lo metteva tra un muro e l’altro per fare il solaio o il tetto. Così si “portava la natura in casa”.
Quelle travi così grezze, contorte dal tempo vissuto nel bosco, erano ancora tronchi che conservavano ancora la forma e l’energia vitale. Non come oggi, quando la macchina seziona con freddezza per produrre travi ad angoli retti … quando mai queste macchine hanno generato vita? Si producono solo legni apparentemente belli, in realtà morenti.
La materia vibra con la storia, con il senso del luogo, e genera serenità.
Materiali perfetti nella loro “imperfezione”: avallamenti del cotto, crepe nelle mura, travi dalle forme impensabili dovute alla nervosità, assi di diversa misura, con le fibre scavate dai vapori, dai fumi; mi piace pensare anche dalle carezze intenzionali qualche volta magari date, dagli sguardi prolungati. Superfici consumate dall’uso, invecchiate dal tempo, che odorano di romanticismo nelle geometrie morbide.
Oggi non siamo più in grado di cogliere la bellezza di un muro “che apre”. Per qualcuno è poesia, per molti solo “una parete da raddrizzare”.
I contadini, portatori di una civiltà, quella dell’essenzialità: si faceva solo ciò che serviva.
Genti legate alla terra che era il solo sostentamento di vita e che non potevano abbandonare.
La casa da condividere con qualche animale, con gli spazi per la conservazione degli alimenti, la legnaia, la paglia magari conservata all’esterno che diventava forma architettonica, gli spazi per il ricovero degli attrezzi, dei carri, degli aratri.
La casa allora non era un fine ma un mezzo per vivere strettamente legata alla terra.
La casa e i materiali, tutto veniva dalla natura: il pavimento spesso in terra battuta, muri di sasso locale, intonaci grezzi di calce e talvolta di terra, legno di castagno spesso proveniente dai boschi vicini.
“Bella, bella, bella, bella …”.
Bellezza assoluta, spesso. Ancora oggi, nelle nostre pianure, nelle piccole colline venete, la vista di queste semplici case rimaste, il più delle volte abbandonate, ci rasserena.
Valesane, archi a tutto sesto, archi ribassati con chiavi di volta, mattoni di varie terre colorate, pietre sbozzate sul posto in modo spontaneo che stupiscono come i cantonali, chiavi di solai arrugginite, intonaci raffazzonati con crepe straordinarie che sembrano textures pensate, scuri sverniciati che sanno di sculture picassiane, ornamenti del sottotetto con porzioni di mattoni a forma triangolare.
L’aia contornata da pietra, il porticato con due, tre archi e anche più in cui s’annida la penombra, buona per il tempo afoso.
Al piano terra la cucina dominata dal focolare, con una tavola grande per accogliere un “paesaggio” umano affollato. Ambiente rabbuiato durante i mesi freddi, prima rischiarato da candele poi da semplice elettricità.
Magari un altro locale per gli indumenti da lavoro, qualche attrezzo. Poi la scala, irta: di quale grado parleremmo se facessimo riferimento a una parete di roccia da scalare? Ovviamente in legno, con le assi appena levigate, e sotto, il secchiaio in pietra. Al piano superiore le camere, in sequenza, divise una dall’altra da pareti leggere in cannucciato, impastato a trucioli e calce.
Camere semplici, giusto per il tempo di dormire, con poche finestre, quella più grande esposta a sud. Il pavimento in assi di legno, di diverse taglie, confinanti con generose fessure, che sembrano annullare il solaio facendo diventare un tutt’uno gli spazi sopra e sotto.
A un corso da me tenuto ai tecnici, chiedo: “da dove proveniamo noi veneti urbanisticamente”? Un architetto mi risponde: “Dalle case a schiera …”!
Ovviamente e per fortuna direi, non è così. La nostra matrice urbanistica è la “contrada o contrà”.
La casa e l’ambiente. Vera meraviglia di integrazione. Cosa c’è di più inserito nell’ambiente di una casa contadina o di una contrà?
“Se te trovo ‘na sera in contrà …” Recita un’altra canta di Bepi De Marzi. Luogo di incontri, di sguardi furtivi, maliziosi, perfino di giochi amorosi.
Luogo di condivisione e cooperazione.
La contrà. Aggregazione di piccole case, nate una dopo l’altra. Così c’era una parete esposta in meno, ci si riscaldava insieme, ci si proteggeva. La vita contadina, seppur molto conflittuale, viveva di aiuti reciproci.
La stalla, “salotto” invernale per l’intimità delle parole e dei gesti, l’aia luogo di incontri, passaggi, giochi, deposito temporaneo di cereali, spazio arioso di respiro.
E sopra, come un cuscino, il fienile, la “tèza”, che sembra coprire per proteggere.
Casa come scenografia di gesti poetici perché seppur nella difficoltà e nelle miserie, gli uomini dei campi immettevano nelle loro opere passione, verità, sapienza. E questo li ha resi eterni.
Oggi, la sola vista di una casa contadina o di un piccolo gruppo di case, ci dona serenità. Perché l’architettura del secondo dopo guerra non ha prodotto altrettanta felicità?
La maggior parte di queste architetture semplici sembrano nate dalla terra dopo una pioggia, tanto sono legate al paesaggio. Dalla natura è stato prelevato solo ciò che serviva, senza opportunismo e falsità.
Un giorno tutto questo ritornerà alla terra madre, senza produrre rifiuti.
Perché andare lontano a cercare le architetture della meraviglia, quando sono intorno a noi?
Biolcalenda di maggio 2014