Già alcuni anni fa Richard Horton e Marcia Angell, separatamente, furono chiari: metà di ciò che si pubblica in campo medico è falso. A dirlo non erano due persone qualunque ma i capi-redattori delle due riviste mediche più prestigiose: The Lancet e il New England Journal of Medicine.
Da addetto ai lavori da quasi mezzo secolo posso dire che la loro valutazione è, a dir poco, ottimistica. Di fatto è molto più della metà ad essere totalmente falso.
Il perché è presto detto: per mantenere un giornale con una tiratura di fatto modesta sono necessari quattrini e, nel caso specifico, i quattrini arrivano dalle case farmaceutiche e, in modo meno rilevante, dai produttori di apparecchiature mediche, protesi e quant’altro: i cosiddetti medical device. Ancora una volta, il perché di questo “mecenatismo” è banale: perché così si fa passare ciò che fa comodo e si sbarra la strada a ciò che non lo è. Ciò che fa comodo per vendere, beninteso, perché quelle ditte non fanno beneficienza ma, come qualunque ditta al mondo, senza che la cosa possa destare scandalo, mirano al profitto.
Naturalmente occorreva dare una parvenza di autorevolezza al sistema, e lo si è fatto distorcendo il concetto di “impact factor”. In origine altro non era se non il conteggio di quante volte un determinato articolo e, di conseguenza, una determinata rivista venivano citati da altri articoli e questo serviva a determinare il tariffario con cui si faceva pagare la pubblicità o si poteva chiedere il rimborso delle spese di pubblicazione. Come sempre, fatta la legge arrivò l’inganno.
Il galateo corrente nel settore vuole che chi è di fatto autore di un articolo, si spera frutto di ricerca, inserisca come coautori una lista di amici o, comunque, di persone in qualche modo utili, persone che, nella grande maggioranza dei casi, ignorano tutto di quella ricerca. Costoro, a loro volta, inseriranno i primi come coautori di un loro articolo. In questo modo si avranno almeno due vantaggi: si elencherà nella propria bibliografia personale una lista enorme di titoli e ci si citerà a vicenda. Ecco, allora, che l’impact factor lieviterà. È ovvio che questo non ha nulla a che fare con l’autorevolezza della rivista ma, molto abilmente, si è riusciti a far passare quel numeretto, quello che indica l’impact factor, come misura di scientificità.
A rimpinguare il quadro c’è il giochetto del “peer review”: le riviste mediche si valgono di “esperti” del settore per valutare la statura scientifica degli articoli che vengono di volta in volta proposti per la pubblicazione. La cosa sarebbe ineccepibile se questi “esperti”(virgolette d’obbligo) non avessero connessioni strettissime, economiche e di carriera, con le industrie. Da qui un sistema di censura impenetrabile.
Ma c’è molto di più, e quel di più riguarda la ricerca.
Ormai da anni le istituzioni non investono più nella ricerca indipendente, lasciando l’onere (e i vantaggi) alle industrie private. È evidente e comprensibile che queste finanzino solo ciò che porta profitto e abbiano tutto l’interesse a far morire, o a far sì che non nascano nemmeno, ricerche diverse. Da qui l’ovvietà: ciò che viene proposto in campo medico passa inevitabilmente attraverso interessi che non sono necessariamente quelli della salute.
Purtroppo non è finita qui. Grazie ad una scalata continua l’industria si sta appropriando e in parte si è già appropriata delle università. Qui si mette in condizione di fare carriera chi è utile alla causa, dove la causa è quella del profitto. Sono loro ad andare in cattedra, sono loro a condurre la “ricerca”, sono loro a brillare sulle passerelle mediatiche, e questo anche se qualunque addetto ai lavori non può non accorgersi del loro valore effettivo, un valore che malauguratamente troppo spesso è largamente sotto la sufficienza.
E con un potere economico sempre più invadente l’industria ha comprato l’informazione ed ha fatto irruzione nella politica dove destra, centro e sinistra non fanno differenza.
In conclusione, quanto è affidabile la medicina oggi?