La vita che vorrei

Già da ragazza fantasticavo vedendomi in una casetta tra i monti, poi crescendo sono rimasta imbrigliata nel mio schema di vita, nella mia città: Ferrara. Un posto delizioso tra bellezze architettoniche e persone preziose. Un idillio? Non proprio…

Rincasando, respiro l’aria della sera, la sento densa, afosa e carica di tanti odori indecifrabili, un misto di scarichi di auto, erba secca e miasmi di cassonetti in fermentazione.
Porto lo sguardo all’orizzonte ed eccola, sempre là, l’imponente serie di ciminiere del polo chimico, con gli alternati sfoghi di fiammate roboanti o di infinite silenti nuvole biancastre che i compaesani sono stati abituati ad etichettare come “vapor acqueo”.
Continuo la strada, con la solita rassegnazione nel cuore, costeggio il canale, mi cade lo sguardo su una tanichetta galleggiante e noto che si fa largo tra una specie di coltre verdastra che ricopre interamente le acque immote del rivolo, allora cambio visuale ed ecco irrompere il margine della strada con tutte le sue plastichette, bottigliette schiacciate e mascherine consunte che ne decorano il bordo, in alcuni punti noto che i “taglia erbe” del comune sono riusciti a farne splendidi coriandoli perpetui e dai mille colori.
Presa dallo sconforto alzo gli occhi al cielo… magari non vedrò forse l’Assoluto ma almeno il cielo di velluto della sera, trapuntato dalle prime stelle, saprà ristorarmi. Le mie aspettative sono presto tradite, niente tracce divine, niente trapunta di stelle ma solo un cielo scuro, opaco e lattiginoso. Ruoto il capo, e nel punto dove indugiano ancora gli ultimi raggi di sole si stagliano le sagome degli alberi deturpati da ingiustificate potature scellerate.
Mesta mi ritiro allora verso casa, mi fermo davanti all’uscio, sento il sudore sulla pelle, l’aria è afosa, il caldo fastidioso, cerco le chiavi dentro allo zaino, sono passati ancora solo pochi secondi dal mio arrivo ma loro sono già lì, rumorose, invadenti, eternamente presenti: le zanzare!
Con una mano continuo ad annaspare alla cieca nello zaino e con la mano libera inizio a schiaffeggiarmi in ogni dove, finalmente trovo la chiave e fulminea la inserisco nella toppa, la giro, apro, attraverso la soglia in un lampo e con uno “slam” mi richiudo la porta dietro alle spalle. Tiro un sospiro di sollievo.

Nata da un’idea e dalle fatiche del mio compagno, la casa è stata terminata tre anni fa. Ristrutturata in bioarchitettura, un guscio di mattoni che racchiude un cuore di legno. Le pareti intonacate in calce al piano terra e in terra cruda al primo piano, in cima un soppalco che sembra quello della baita di Heidi. Fresca d’estate e calda d’inverno con il tetto rivestito da pannelli fotovoltaici, non teme confronti. Ha anche un bel giardinetto… che purtroppo in estate è ad uso esclusivo delle zanzare.

Dopo aver trascorso una vita intera in questa città, ad un certo punto irrompe una cicogna che consapevole ci sgancia un bel bimbo biondo con gli occhi blu. Me lo faccio recapitare direttamente in camera da letto perché mi sembrava un gran peccato farle fare una consegna in una stanza di ospedale illuminata al neon. Poi dal passaggio della cicogna sono passati altri anni ed io e il mio compagno abbiamo cominciato a chiederci sempre più frequentemente se fosse davvero il posto giusto dove continuare a vivere e far crescere nostro figlio.
Un quesito leggero per una famiglia avvezza agli spostamenti ma molto più complicato da sciogliere per due pantofolai con radici chilometriche che ci tenevano legate al luogo di nascita, non solo nostro ma anche di tutto l’albero genealogico.

Continua…


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