Il consumo di cibo ultraprocessato potrebbe determinare effetti negativi sull’aspettativa di vita. Queste le conclusioni di uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Navarra (Spagna) (The American Journal of Clinical Nutrition, Volume 111, Issue 6, June 2020, Pages 1259–1266).
La questione non è nuova. È dunque bene richiamare alla mente il significato di cibi ultraprocessati, perché questi alimenti stanno occupando uno spazio e una quota calorica sempre più ampia nel nostro piatto.
Ricerche stimano che si possa arrivare in alcuni casi fino alla metà delle calorie giornaliere. Quelli ultraprocessati sono cibi fatti in parte o interamente con sostanze estratte da ingredienti alimentari, come grassi, amidi, lipidi idrogenati e zuccheri aggiunti, con il necessario complemento di aromi artificiali, coloranti ed emulsionanti.
Non siamo in presenza di una dieta per astronauti, ma a prodotti che sono consueti sulle tavole e che vengono largamente legittimati dalla pubblicità e promossi dalla grande distribuzione, soprattutto come invitanti cibi pronti: bibite gassate, merendine e snack, patatine, biscotti e dolcetti, salumi e bocconcini di pollo, salse varie, zuppe istantanee in polvere e molto altro.
In questo studio condotto su soggetti anziani è stata dimostrata una forte associazione tra il consumo di cibo ultraprocessato e l’accorciamento dei telomeri, i filamenti associati al DNA che hanno un ruolo chiave nel preservare la stabilità e l’integrità del nostro patrimonio genetico. Insomma, più cibo pronto e minore aspettativa di vita.
Meglio cucinare.