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La Cina è lontana

In Cina si stanno rendendo conto che non ci può essere uno sviluppo duraturo senza tenere conto della salvaguardia dell’ambiente e stanno correndo ai ripari. Da noi ancora no. Sono appena tornato dalla Cina. Da Shanghai, per la precisione, che forse non è l’immagine fedele della Cina ma ne è, comunque, la porta d’ingresso così come la si volle alla fine dell’impero.
In Cina ero già stato altre due volte, l’ultima una dozzina d’anni fa quando vi percorsi diverse migliaia di chilometri curiosando dove mi era possibile curiosare. Da allora molto è cambiato, anche se laggiù i cambiamenti non hanno clamori né impennate: tutto è ovattato, tutto corre su binari che non consentono cambi di direzione né, tantomeno, deragliamenti o, men che meno, improvvisazioni. Per vederli, quei cambiamenti, occorre tornare a distanza di tempo.

 

Questa volta sono andato su invito, un invito con un preavviso brevissimo e di fatto inaspettato e mi sono state fatte incontrare persone «che contano». Il perché di quell’invito è di una logica elementare. Il boom, che ha portato nel volgere di tempi brevissimi a fare della Cina l’economia su cui si regge (per quanto?) la fetta privilegiata del Pianeta, ha anche portato con sé, insieme con i tanti vantaggi economici e politici, problemi che stanno diventando vistosissimi, e lo fanno ad una velocità crescente. I problemi sono quelli che, senza scansare ipocritamente la brutalità dell’affermazione, stanno portando il genere umano verso una graduale impossibilità di sopravvivenza, esattamente come l’etologo Danilo Mainardi notò quando disse che l’Uomo è l’unico animale che si estingue volontariamente.

Come altrove, anche in Cina il progresso è stato considerato, in termini di avanzamento tecnologico e industriale, senza curarsi – e anzi cestinandolo come un inutile fastidio – del problema oggettivo e facilmente osservabile di un ambiente insultato che andava accelerando verso la catastrofe. Un pragmatismo, certo esasperato, ha privilegiato la produzione a buon mercato di beni e, nel concetto di buon mercato, era insito il trascurare ogni cautela ecologica. Insomma, si stava costruendo e perfezionando un’automobile capace di correre sempre più veloce, ma nel cui progetto mancavano i freni e un telaio capaci di un arresto e di una tenuta di strada adeguati. La velocità era l’unico parametro ad entrare in gioco perché, semplicisticamente, è con la velocità che si corre più forte dei concorrenti.

Era inevitabile che, così facendo, prima o poi, si sarebbe incappati in una curva difficile e, alla sbandata, ci si rendesse conto che freni e telaio sono utili almeno quanto e forse più di un motore potente. E così è stato.

Si sono fatti i conti, conti che, se calcolati con onestà, non mentono, e si è costatato come metodi di produzioni industriali e prodotti finali, che non tengano conto di che cosa si scarica in aria, in acqua e in terra, oltre che direttamente negli organismi delle persone, comportino costi di gran lunga superiori ai guadagni che si vanno accumulando. Se gli operai lavorano respirando veleni, rendono meno. Molto meno. Così se la gente comune immersa nell’inquinamento si ammala. Così se i bambini nascono meno intelligenti o con handicap fisici. Così se l’acqua è imbevibile. Così se il cibo è inquinato. Così se il suolo cambia, ahimè in peggio, le sue caratteristiche.  Così se gli insetti sono sempre meno attivi nell’impollinazione.

Che bisognasse correre ai ripari era la cosa da fare e, nella loro visione, io posso rappresentare una tessera, magari modesta, del mosaico da costruire. Ecco il perché dell’invito.

In Cina sono in programma opere che coinvolgono quantità di denaro proporzionate al miliardo e trecento milioni di abitanti del Paese e proporzionate pure all’immagine che si vuole dare di città che, come Shanghai, hanno un aspetto e prospettive invidiabili per quasi tutte, o forse proprio tutte, le città del nostro grottescamente presuntuoso Primo Mondo. Inutile, anzi deleterio fino al suicidio, mettere in pista progetti che non siano il massimo, che non solo la tecnologia può offrire, ma una tecnologia che tenga conto delle sue stesse conseguenze.

Questo al contrario di quanto è avvenuto finora laggiù e continua in modo cocciutamente imperterrito da noi. Da noi dove è sufficiente presentare progetti che tengano conto di risultati immediati del tutto miopi nei riguardi di ciò che la loro messa in opera implica. Un esempio nostrano, fra i troppi possibili, può essere l’ILVA di Taranto.
Nulla di ciò che è accaduto era imprevedibile. Anzi, era tutto di una prevedibilità addirittura banale, così come è banalmente ovvio che le cosiddette bonifiche altro non saranno se non ulteriore immondizia sotto il tappeto, mentre il rinnovamento in senso ecocompatibile degli impianti sarà solo un’operazione cosmetica buona per tacitare l’opinione pubblica e per offrire alibi che reggeranno fino al prossimo tonfo. Purtroppo, però, la natura non si lascia gabbare e le conseguenze saranno quelle ovvie di un ulteriore sprofondamento nelle sabbie mobili di un ambiente non solo patogeno ma del tutto antieconomico.

Ora è logico chiedersi perché in Cina si stiano rendendo conto delle caratteristiche del problema e da noi, invece, no. E alla comprensione, quando esiste onestà intellettuale, va ad aggiungersi la necessità urgente di riparare e, in ciò che è nuovo, di non cadere più nei vecchi errori.

È vero, la politica cinese può essere discussa e criticata, ma da noi? Proviamo a mettere onestamente sotto la lente d’ingrandimento – una lente che, in definitiva, non deve nemmeno essere molto potente – la qualità della nostra cosiddetta democrazia e tiriamo le somme. Io osservo le cose dal mio punto di vista, che è quello di chi si occupa di salute e di ambiente, due punti fondamentali e ineludibili della politica in senso proprio, e la bocciatura è netta e senza appello.

Biocalenda gennaio 2013


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