Solo se saranno in grado di avere effetti sul reddito le colture transgeniche potranno essere adottate dall’agricoltore, con indubbi vantaggi sia per il settore agricolo, che vedrebbe incrementate le sue possibilità produttive, sia per l’intera società, in relazione alle esternalità positive che essa potrà continuare a ricevere dal settore agricolo (presidio e manutenzione del territorio, conservazione del paesaggio, tutela della flora e della fauna, conservazione della biodiversità, creazione di spazi ad uso ricreazionale, conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio rurale, mitigazione degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo, ecc.).
I sostenitori degli OT affermano che l’agricoltore nazionale dovrebbe adottare piante transgeniche, poiché esse sarebbero in grado di produrre di più a minori costi. Purtroppo, però, le coltivazioni transgeniche non sono in grado di garantire un maggior reddito al produttore. E’ risaputo, infatti, che in agricoltura ad una contrazione dei costi di produzione corrisponde nel lungo periodo una diminuzione dei prezzi dei prodotti offerti. Realisticamente, può accadere che ad una riduzione dei costi corrisponda, nel lungo periodo, un’analoga diminuzione del prezzo di vendita, ristabilendo così la situazione di partenza dei margini per il produttore. A questo proposito occorre rilevare che, anche nel caso in cui per il produttore il margine per unità di prodotto venduto rimanesse costante, inserendo nel riparto colturale processi produttivi in grado di abbassare i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, egli favorisce, quasi inconsapevolmente, una diminuzione del suo reddito reale, in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli rimangono, nella migliore delle ipotesi, costanti (occorrono più quintali di grano per acquistare un’automobile o un televisore).L’agricoltore nazionale potrebbe ottenere un incremento del suo reddito netto anche attraverso l’adozione di un processo produttivo che consenta o una maggior utilizzazione dei fattori della produzione di cui dispone in abbondanza (manodopera, terra, ecc.) o, al contrario, una minor utilizzazione dei fattori della produzione che è costretto ad acquistare sul mercato. Anche in questo caso le coltivazioni transgeniche si comportano in modo contrario, poiché sono sostanzialmente disattivanti nei confronti di taluni fattori della produzione apportati direttamente dall’imprenditore e richiedono, nello stesso tempo, un maggior apporto di fattori esterni che egli è costretto ad acquistare sul mercato. La semente biotecnologica potrebbe rappresentare il primo passo per consentire la completa automazione del processo produttivo agricolo (piante autosufficienti, resistenti a tutti i tipi di malattie, che crescono ovunque), un processo produttivo controllato dai satelliti (“precision farming”) che non avrà più bisogno dell’agricoltore o, per lo meno, ne avrà bisogno in modo decisamente limitato. E’ in questo contesto, ovvero in un contesto in cui il reddito da capitale prevarrà sul reddito fornito dagli altri fattori produttivi (terra e lavoro), che si creano i presupposti per il passaggio del controllo del territorio rurale dall’agricoltore, che non riesce più a ricavare un reddito adeguato dalla sua attività, poiché i fattori della produzione di cui dispone non sono più necessari e quindi non sono più remunerati, ad individui estranei all’attività agricola che con i propri capitali, o con i capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nella coltivazione ma anche nella proprietà delle aziende agricole.
Anche nel caso di aumento della produttività di queste piante, ed in presenza di prezzo stabile dei prodotti offerti, l’agricoltore non otterrà rilevanti benefici dall’adozione degli attuali OT. Infatti, queste produzioni sono brevettate, per cui il costitutore, con ogni probabilità, sarà portato a spingere il prezzo di vendita della semente ad un livello prossimo al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il settore primario.
Secondo i sostenitori degli OT l’aumento del reddito dell’agricoltore potrebbe derivare anche da una differenziazione della produzione verso produzioni caratterizzate da un maggior valore aggiunto (più proteine, più vitamine, meno calorie, partenocarpia, meno residui di antiparassitari, ecc.). Da un punto di vista mercantile possiamo affermare di trovarci di fronte ad un altro prodotto, completamente diverso da quello originale, con un proprio segmento di mercato e, quindi, con una propria clientela che predilige quel prodotto del quale apprezza le caratteristiche intrinseche. Tale clientela potrà essere disposta a pagare di più pur di avere quel prodotto e, pertanto, vi potranno essere maggiori opportunità di guadagno per l’imprenditore agricolo. Tali opportunità di guadagno si verificheranno solo se il mercato del prodotto sarà “libero”, poiché nel caso, molto più realistico, in cui la produzione fosse attuata “su contratto” (per conto del costitutore della pianta transgenica, che fornirà all’agricoltore il seme e curerà poi la commercializzazione del prodotto ottenuto) i maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore dell’impresa integrante e, quindi, del costitutore.
Strettamente connesso al precedente è poi il problema della brevettabilità degli organismi prodotti, se non, addirittura, quello dei singoli geni che li vanno a comporre. Trattasi di un argomento di estrema importanza, poichè non si può permettere che l’approvvigionamento alimentare sia condizionato dal comportamento di imprese che posseggono un diritto esclusivo sull’utilizzazione della biodiversità esistente. A questo riguardo occorre rilevare che l’idea della brevettabilità dei geni di piante ed animali, nonché dei prodotti ottenuti mediante la loro utilizzazione (piante ed animali che contengono quel gene), è uscita rafforzata dalle ultime dichiarazioni sul “genoma umano” di alcuni capi di governo di Paesi che detengono importanti scoperte in questo settore. In particolare, le loro dichiarazioni hanno riguardato solo i geni umani che devono essere considerati patrimonio dell’umanità e che, pertanto, è eticamente inaccettabile ogni forma di brevetto e di sfruttamento economico degli stessi, mentre nessun accenno è stato fatto in merito ai geni di piante ed animali, rafforzando così il presupposto di una loro brevettabilità e sfruttabilità economica.
In pratica, che cosa potrebbe accadere nella realtà?
Il costitutore di quella determinata cultivar di pomodoro o di melanzana potrebbe registrare con il medesimo nome (che assume a tutti gli effetti la funzione di marchio) sia la nuova pianta, sia il marchio commerciale con il quale il “frutto” della pianta potrà o dovrà essere commercializzato. Pertanto l’organismo che ha brevettato quella nuova cultivar, oltre alla royalty sulla semente, potrebbe imporre anche il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di prodotto venduto. Per attuare questa strategia è sufficiente che l’organismo che detiene il brevetto di quella cultivar crei a livello mondiale una rete di esclusivisti, siano essi moltiplicatori della semente e/o commercianti per la vendita del prodotto, in grado di controllare l’intera filiera produttiva, che parte dalla moltiplicazione del materiale genetico e arriva alla vendita a dettaglianti del prodotto ottenuto. Trattasi di un processo di “integrazione circolare contrattuale” nel quale interviene una singola ditta industriale o commerciale, che produce autonomamente o acquista da un costitutore i diritti di moltiplicazione della nuova pianta, registra il marchio commerciale del prodotto ottenibile dalla coltivazione di quella nuova pianta e gestisce l’intera filiera. Tale opportunità è resa possibile oggigiorno dal forte processo di concentrazione della domanda di prodotti alimentari. Le catene della Grande Distribuzione sono in grado di acquistare grandi masse di prodotto, che deve essere di qualità costante, con un prezzo sostanzialmente stabile, consegnato nei tempi stabiliti. In un contesto di questo tipo le grandi imprese commerciali sono in grado di attuare forti concentrazioni dell’offerta, che nell’esempio riportato sono facilitate dalla presenza di un prodotto legalmente tutelato, per il quale è possibile controllare abbastanza semplicemente sia l’immissione sul mercato del materiale di propagazione (e, quindi, l’apparato produttivo), sia la produzione avviata al consumo, nonché le prevedibili ed inevitabili frodi commerciali. Trattasi, come si può osservare, di una filiera produttiva decisamente efficiente, nella quale, però, l’agricoltore rappresenta sempre l’anello più debole dell’intera catena, in quanto è molto spesso costretto ad accettare particolari condizioni contrattuali che ne possono limitare l’autonomia imprenditoriale. Infatti, il detentore del marchio commerciale, che attua una specifica attività di marketing sulla marca, potrebbe indicare alle ditte che effettuano la vendita del prodotto le caratteristiche qualitative che lo stesso deve avere, la confezione da adottare, nonché le modalità di confezionamento e di vendita. E’ ovvio che in una situazione di questo tipo l’agricoltore non può certo pretendere di ottenere una remunerazione “completa” dell’attività imprenditoriale, in quanto molte operazioni che caratterizzano la filiera sono svolte da colui che detiene il brevetto, che si “approprierà” dei relativi compensi.
Al limite, si potrebbe ipotizzare una situazione in cui l’agricoltore non dovrà nemmeno acquistare le sementi, ma le riceverà per la coltivazione dalla stessa impresa che ne detiene il brevetto e che diventerà anche proprietaria del prodotto finale ottenuto. Il processo produttivo sarà portato avanti dall’agricoltore sulla base di un “disciplinare di produzione” nel quale saranno elencati la data di semina, i prodotti antiparassitari da utilizzare, le operazioni colturali da effettuare e quant’altro necessario per portare a maturazione il prodotto (al limite l’impresa integrante, al fine di sfruttare il suo potere contrattuale anche nei confronti delle ditte produttrici di concimi e/o antiparassitari, potrebbe fornire all’agricoltore anche i mezzi tecnici necessari per completare il ciclo produttivo). Per le sue prestazioni l’agricoltore riceverà un compenso forfettario che tiene conto dell’impegno richiesto in termini di manodopera e di macchinari specifici. In una situazione di questo tipo l’agricoltore è sgravato da gran parte dei rischi di impresa, ma nello stesso tempo diviene esclusivamente un prestatore di manodopera e di capitale, a favore dell’impresa integrante che rimane proprietaria del prodotto ottenuto. Ovviamente, per una produzione effettuata su commissione, il compenso per l’agricoltore, in una economia di mercato, sarà soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, per cui cosa accadrà quando l’impresa che detiene il brevetto su quella pianta troverà un altro agricoltore in grado di fornirgli le stesse prestazioni ad un prezzo inferiore? O quando troverà un altro Paese, con condizioni di costo dei fattori produttivi più favorevoli? E’ ovvio che, a parità di altre condizioni, con ogni probabilità, sposterà le sue produzioni laddove costerà meno ottenerle.