Il cibo relazionale di Mario Rigoni Stern, contro la guerra.
Ogni tempo e ogni umanità ha avuto le sue complicazioni. La nostra è complicata dalle facilità , più che dalle difficoltà . Le molte agevolazioni tecniche, scientifiche e sociali che abbiamo avuto negli ultimi decenni ci hanno semplificato la vita, ma rischiano di farci dimenticare dei valori fondanti.
In quest’epoca è in atto una guerra strisciante. Non si usano le armi, ma la dialettica: per imporre opinioni. Pensare che il nostro punto di vista sia l’unico giusto, perché “noi siamo informati e abbiamo capitoâ€, legittima la guerra, in cui ciascuno pensa di aver ragione sull’altro. La nostra verità , l’unica che abbiamo, teniamola pure stretta. Ma uniamola al dialogo e all’ascolto delle altrui verità , in un quadro di rispetto, se vogliamo vivere in pace, e non in guerra.
Questo articolo è un invito a ricordare che possiamo nutrire e possiamo cucinare la pace. Come nello scritto di Mario Rigoni Stern: si può essere semplicemente qualcuno che ha fame, entra in una casa, riceve un aiuto. Ringrazia, saluta. Fuori.
Questa è la vera e profonda relazione tra uomini. La relazione normale. Una relazione che presuppone una fiducia profonda, illimitata, nell’essere umano. Ciascuno è quello che è, non c’è conflitto che valga il rispetto per l’inossidabile libertà che abitiamo, intrinseca, nel cuore, nell’anima. Ciascuno è proprio lì dove si trova, c’è sempre un motivo per questo. La sua storia, la sua vita, le scelte che ha fatto il più onestamente che gli è stato possibile. La sua capacità di capire. Ciascuno può sentire e dire la sua fame, la fame di ognuno di noi è diversa, la verità della vita di ognuno di noi è diversa.
Rispetto. Questa è la parola che appare come un macigno tolto di fronte al sepolcro delle verità , dalle pagine di Rigoni Stern. È l’invito a fare un passo indietro, da parte di chi ha fatto decine di migliaia di passi avanti nella neve, per tornare a casa da una falsa verità , quella della guerra. Rispetto, questa è la parola di cui più si sente la mancanza ai nostri giorni, bistrattati e distorti da una guerra di opinioni.
“Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportatiâ€.
Com-portati. Capaci di condurci, da qualche parte. Quale è l’umanità che vogliamo? Dove vogliamo condurci? Pensiamoci. Comunque sia, avremo e otterremo sempre l’umanità che ci meritiamo.
“Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con un cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mnie khocetsia iestj – (“Vorrei mangiareâ€) dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto, – Pausasta, mi risponde con semplicità . I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso ci sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, e venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni.
La donna mi dà il favo ed esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli animali della foresta hanno uno dell’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, ad innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivereâ€.
Tratto da “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern
La ricetta