La nuova architettura prende il colore organicamente in se stessa. Il colore è uno dei mezzi elementari per rendere visibile l'armonia dei rapporti architettonici.
Dell'interesse suscitato dai pittori impressionisti ottocenteschi francesi (gli studi dei quali traevano ispirazione anche dai trattati rinascimentali, per esempio il Sulla pittura di Leonardo), con conseguente concentrazione sugli studi e sugli esperimenti sul colore, nella sua azione di avanzamento, allontanamento espansione e contrazione, si ha prova soltanto più tardi, nella produzione pittorica dei cubisti e astrattisti, nell'insegnamento impartito al Bauhaus da Kandinskij (che affermò che i colori possono creare, in connessione alla forma, movimenti orizzontali, centrifughi e centripeti) e Scheper e nel movimento olandese De Stijl, che fu il primo, attraverso il pittore-architetto Theo van Doesburg, a teorizzare l'uso strutturale del colore in architettura. Infatti, nei diciassette punti dell'architettura neoplastica è detto: «La nuova architettura prende il colore organicamente in se stessa. Il colore è uno dei mezzi elementari per rendere visibile l'armonia dei rapporti architettonici. Senza colore, questi rapporti di proporzioni non sono delle realtà viventi ed è attraverso il colore che l'architettura diviene il fine di tutte le ricerche plastiche tanto nello spazio che nel tempo… Il colore invece di drammatizzare una superficie piana, invece di essere un ornamento superficiale, è come la luce, un mezzo elementare dell'espressione puramente architettonica».
Dall'alto in basso: casa Schroeder a Utrecht, Café Unie a Rotterdam, Progetto di Bruno Taut
A questa filosofia si devono la casa Schroeder a Utrecht, di Gerrit Th. Rietveld, del 1924, e il Café Unie a Rotterdam, di Jacobus J. Oud, del 1925, ai quali si potrebbe aggiungere, pur rilevandone le differenze, il progetto per la casa del poeta Henri Ferrare a Ginevra, di Alberto Sartoris, del 1930.
In precedenza, sul finire degli anni dieci, anche Bruno Taut aveva ipotizzato un'età felice in cui «rifioriranno i colori; l'architettura colorata di cui oggi solo pochi sentono la mancanza, la scala ininterrotta dei puri colori, si riversa di nuovo sulle vostre case e le libera dal loro spento grigiore".
Tuttavia, non fece proseliti perché allora si tendeva al purismo delle superfici bianche, alla cancellazione di qualunque ornamento e sovrastruttura o presunto tale (come, appunto, il colore). Grandi maestri, come Adolf Loos prima e Le Corbusier poi (che pure in molte opere ha usato il colore), contribuiscono a orientare gli architetti verso il bianco, simbolo di liberazione, pulizia, ordine e solarità. Queste teorie, unite al fascino per i nuovi materiali e le nuove tecnologie, hanno ben presto fatto dimenticare che, come disse Goethe, «gli uomini provano un gran piacere nel vedere i colori come della luce», e hanno provocato una critica che, denunciata oltre trent'anni fa da Giulio Carlo Argan, trova oggi maggiori consensi: «Se l'architettura moderna ha un grave limite, sta proprio nel fatto che non ha vissuto, se non indirettamente o di riflesso, l'esperienza dell'Impressionismo e delle correnti ad esso succedute.
Inoltre, è bene non scordare che per l'uomo il colore è da sempre ciò che serve a classificare, associare, opporre, designare, gerarchizzare. Infatti, nonostante tutto, non è mai stato abbandonato completamente: se era bandito da alcune città, spuntava in altre, se si temevano reazioni troppo forti ai colori accesi, si usavano tinte pastello, come nelle case in legno verniciato dei sobborghi est di San Francisco, dove i rosa, gli azzurri, i verdi, i violetti mettono in risalto l'ornamentazione, identificano immediatamente le proprietà e creano un insieme armonico. Se colorare rappresentativi interventi urbani non rispondeva alle regole si ripiegava sull'edilizia minore, per esempio su quella economica-popolare degli anni cinquanta-sessanta, nella quale spesso si tinteggiavano pesantemente le logge degli edifici. Erano scelte che però non avevano fondamento scientifico, né gli utenti erano preparati culturalmente: appena possibile, i nuovi proprietari si affrettavano a imbiancare e rendere ancor più anonima la casa.
Dalla metà del secolo XX, comunque, rinasce la propensione al colore, manifestandosi nel campo architettonico (notoriamente più lento e prudente di moda e design) con diverse facce, indipendentemente dai materiali impiegati. Grazie agli sviluppi della tecnologia e della chimica e alla maggiore versatilità progettuale, il cromatismo si esprime in più direzioni: dal colorare i fronti degli edifici, anche con tinte forti e contrastanti più o meno in sintonia con l'architettura locale (come gli interventi di Pier Lodovico Rupi ad Arezzo), all'esaltare il materiale di costruzione o mimetizzarlo (come nella facoltà di Biologia a Milano, di Vico Magistretti e Franco Soro, dove solo gli anonimi pannelli prefabbricati sono impreziositi dal colore), allo staccare decisamente i diversi corpi di fabbrica di uno stesso complesso per sottolinearne i volumi. Dall'utilizzare ricerche pittoriche iperrealiste vicine al trompe-l'oeil (come nelle esperienze di Richard Haas
a New York – vedi foto) o all'ipergrafica diffusasi in questi ultimi anni, al mascherare (è il caso del puro ornamento), magari con ironia, un'edilizia altrimenti povera e inespressiva. Dallo sfruttare come nota di colore gli elementi caratterizzanti la costruzione (come gli impianti tecnologici e i percorsi del Centre Pompidou a Parigi di Piano e Rogers), al mitigare la visione verticale di un'uniforme edilizia bianca, usando una decorazione cromatica orizzontale (pavimentazioni) o di complemento (oggetti di arredo urbano), al ricercare soluzioni, psicologicamente comprovate, che attenuino o eliminino immagini di per sé oppressive (se variamente colorata, una scuola diventa più simpatica, un grattacielo è meno incombente, un quartiere popolare meno alienante), al servirsi del colore o di materiali policromi come elemento pubblicitario indispensabile e opportuno (come, tra i primi, è stata la fabbrica di ceramiche a Vietri sul mare, di Paolo Soleri – vedi foto).
Un ritorno armonico e contestuale al colore presuppone però una rieducazione, come aveva già capito Mies van der Rohe: docente all'IIT, insegnava agli studenti a prendere con un contagocce, da quattro-cinque vasetti di colore ad acquerello già preparato, quantità variabili e comporre su un foglio appena inumidito differenti macchie rotonde, al fine di acquisire la capacità di accostare le sfumature e addestrare l'occhio a considerare le quantità relative necessarie, colore per colore, a ottenere un certo effetto di armonia cromatica. Perché se è facile accordare quantità anche grandi di colori smorti, ne basta uno vivo per rialzare l'insieme e ne occorre poco di più per distruggere tutta l'armonia precedente.
Pensare al colore come elemento (strutturale) o complemento (decorativo) dell'architettura non sembra avere oggi molta importanza, sempre che lo scopo sia dare unitarietà (non uniformità), vita, allegria senso di festa (perché questo il colore ricorda) a spazi urbani altrimenti grigi, dai quali secondo qualunque psicologo provengono molti comportamenti delinquenziali. Perché il colore ha anche una funzione formativa centrale nella vita sociale: non per niente, alla fine del Medioevo, per decisione giudiziaria, si dipingevano di giallo le case degli spergiuri, dei falsari e dei debitori, costringendoli a una vergogna che nessun'altra condanna avrebbe dato. E recentemente si è diffusa l'abitudine di verniciare gli interni delle cabine telefoniche di rosso vivo per scoraggiare, pena una rapida sensazione di soffocamento, i chiacchieroni. Una ragione in più per rispolverare Aristotele, che sosteneva che il colore è sì un cosmetico ma anche una medicina, un'affermazione convalidata da prove scientifiche soltanto duemiladuecento anni dopo da Albert Szent Giörgyi, premio Nobel per la medicina nel 1937.
(articolo tratto dal libro: M.P. Belski: particolari di progettazione)