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Il colore (prima parte)

Curiosando qua e là si scopre che il verde o il blu chiaro migliorano la rigenerazione delle cellule, accelerando la cicatrizzazione, che per i vaiolosi erano indicati ambienti di colore scarlatto e per i malati di tetano bisogna scegliere il nero.

È anche provato che il bianco in certe carceri porta con facilità a terribili crisi di angoscia, mentre l'azzurro nelle abitazioni orientali dà una piacevole sensazione di frescura. Negli ambienti di lavoro si è constatato che i contabili si concentrano meglio nel verde scuro, le segretarie preferiscono il beige. Inoltre, molte stalle modello hanno le pareti tinteggiate di blu: fa aumentare la produzione del latte. Sempre il blu è largamente impiegato nell'area mediterranea per colorare gli abiti, le porte, le imposte delle finestre, perché allontana le mosche. Oggi, il blu è anche il colore in assoluto preferito da europei, canadesi, americani e australiani, sì da poterlo considerare il simbolo dell'era contemporanea: non è un caso che, nella cromoterapia, il blu curi lo stress.
(nella foto: relazione tra forma e colore proposta da Johannes Itten nel 1961 – in A. Appiano, Comunicazione visiva, Utet, Torino, p. 162 e p. 135)

Gli studi sul colore sono molto vari e intrecciano campi disparati, apparentemente antitetici tra loro, fornendo una miscellanea di conoscenze e deduzioni, senza però arrivare a nulla di conclusivo perché, come afferma Rudolph Arnheim (uno dei padri della percezione visiva e assertore della teoria della Gestalt), «non si può parlare di colore com'è realmente in nessun senso attendibile: il colore è sempre determinato dal suo contesto», contesto spaziale, storico, culturale, psicologico, naturalmente.

In alcune parti del mondo non si parla di gialli, blu o rossi, colori caldi o freddi come nella cultura occidentale, ma di colori secchi o umidi, morbidi o duri, lisci o ruvidi, opachi o brillanti, sordi o sonori, allegri o tristi: non sono importanti le tinte o le sfumature, ma le sensazioni che provocano. Anche Plinio faceva distinzione tra colori floridi e colori austeri, i primi verosimilmente in funzione decorativa, i secondi rappresentativa. Quest'ambito percettivo è oggi ben noto, oltre che ai pubblicitari, agli arredatori, i quali hanno riscoperto il colore negli interni.

Per gli esterni, però, il discorso cambia completamente: il colore è strettamente legato a motivi decorativi e funzionali, ma soprattutto è inscindibile da tutte le altre componenti del fatto architettonico. «Non soltanto – ha sostenuto Giulio Carlo Argan – il colore non è una variabile rispetto ad una costante spaziale, ma non è possibile rappresentare visivamente lo spazio se non nella profondità, nel movimento, nella variazione del colore o, infine, nella struttura della percezione del fatto coloristico».

E, ha precisato Argan, troppo spesso non si è esaminato «il discorso della funzione importantissima che il colore potrebbe avere in architettura, quando non venisse considerato un semplice complemento decorativo, ma un elemento fondamentale della costruzione formale». Siamo talmente abituati a pensare a un'architettura monocroma, possibilmente smorta, che è difficile immaginare, anche se ne siamo perfettamente al corrente, che il Partenone e l'architettura greca in genere erano ipercolorati, in un'orgia di tinte variate proprio per dare gradazione ai fondi e staccare più sensibilmente i bassorilievi e gli altri accessori.

Lo stesso era stato nelle opere degli antichi Egizi e degli Assiri, dei Fenici e dei Cinesi; i sei o sette piani delle ziqqurat babilonesi erano dipinti ognuno in un colore diverso. Lo stesso era nelle chiese romaniche dove muri, pavimenti, finestre, soffitti, colonne, capitelli, timpani, tutta la decorazione scultorea erano coloratissimi: alle tinte fisse, animate dalla luce del sole, si associavano i colori delle decorazioni temporanee, dei paramenti liturgici, degli oggetti di culto. Per tutto il Medioevo, la città è stata, in opposizione alla campagna, il luogo della luce e del colore, utilizzando marmi policromi, pietre, mattoni, mosaici, pigmenti secondo significati e gerarchie ben precise, non solo nelle chiese e negli edifici pubblici, ma anche negli esterni e interni delle case, fino ad arrivare a curiosi (per noi) paradossi, come colorare le persiane delle finestre a seconda della posizione dei proprietari rispetto al papato: verdi per i favorevoli, gialle per i contrari.

Le città più autenticamente marinare (Portovenere, Venezia, Portofino e Amalfi) erano – e sono rimaste – fortemente colorate: punti obbligati di scambio commerciale e ogni altro tipo di rapporti tra popoli lontanissimi, erano città aperte, scevre da pregiudizi, libere di scegliere il colore delle case, a differenza delle città continentali i cui contatti erano rapportati a distanze molto più modeste, quindi l'organizzazione era più chiusa, la tradizione locale più forte e meno soggetta a trasformazioni.

colore2Dall'antichità fino all'affacciarsi del Neoclassicismo, il colore non solo è stato scelto secondo scopi ornamentali, simbolici, rappresentativi o sentimentali (Bartolomeo Francesco Rastrelli usò per i suoi esterni a San Pietroburgo un particolare tipo di blu, identico al colore degli occhi di Caterina II, della quale pare fosse segretamente innamorato), ma rispondeva a esigenze percettive d'insieme. (Foto: Bartolomeo Francesco Rastrelli, Palazzo di Caterina)

In una parola, al luogo. Per esempio, le russe cupole d'oro in foglio e le nordiche coperture in rame ossidato delle torri e delle chiese contrastano efficacemente con il cielo plumbeo dei lunghi inverni, le maioliche colorate che rivestono le moschee islamiche orientali luccicano sfarzosamente sotto il sole sulle case di fango rosa. In Italia, il cotto rosso o le lastre di piombo (che ossidandosi diventano bianche-rosate, assimilandosi così, nelle tonalità, ai travertini e alle altre pietre chiare da costruzione) delle cattedrali contrastano bene con il cielo tipicamente mediterraneo.

Ma città come Roma e Venezia sono casi un po' particolari: parte del colore che le caratterizzano non è stato prodotto dall'uomo, ma dal rapporto tra la materia e l'atmosfera (elemento peraltro piuttosto importante nella formazione dell'identità di un luogo). Il travertino romano è, infatti, una pietra porosa e cangiante, che assume con il tempo una colorazione radicalmente diversa da quella del taglio di cava, acquisendo un chiaroscuro naturale prodotto dalla patina e dall'acqua piovana, che accentua al sole il rilievo plastico delle architetture.

Sulla pietra d'Istria veneziana, invece, soprattutto nelle zone protette dalla pioggia, si forma un velo grigiastro non uniforme, un'ombra artificiale uguale in tutte le ore del giorno, efficacissima nel mettere in risalto la profondità degli elementi. L'architetto romano o veneziano era sicuramente a conoscenza dei fenomeni e dei risultati dell'invecchiamento delle pietre, perché spesso faceva ricorso a delle patine artificiali e a lievi coloriture nella fase finale del cantiere, per togliere, prima del tempo, l'effetto di rigidezza e dar calore, integrando la nuova costruzione all'ambiente circostante.

Di conseguenza, viene esaltato il fatto che il colore è sempre stato considerato in due modi differenti: come applicazione autonoma dalla materia della costruzione e come caratteristica della materia stessa. Nel primo caso può essere cambiato o manipolato in qualunque momento, nel secondo è parte integrante dell'edificio, autorappresentandone i materiali e, spesso, le strutture.

Qualche decennio dopo le scoperte newtoniane sulla luce e il colore, cioè dalla seconda metà del XVIII secolo – talvolta anche prima – l'arte neoclassica trionfante ha imposto il candore della pietra, dichiarando guerra ai colori degli edifici. Quatremère de Quincy fu lapidario nel definire la pratica del colore: «Una specie di ciarlatanismo, che tende a impadronirsi del suffragio degli occhi in difetto di quello dello spirito».

colore3Fin verso la fine del XIX secolo c'è dunque una tendenza – per ragioni per lo più ideologiche alle cui origini stava la Riforma protestante – a rifiutare il colore, non solo sulle case, ma anche negli oggetti della vita quotidiana, dove sono ammessi solo il nero, il grigio e il bianco. Poche sono le eccezioni, tra cui il Crystal Palace di Joseph Paxton: coadiuvato da Owen Jones, Paxton colorò a strisce rosse, gialle e blu le membrature di acciaio, gli impalcati di legno e le fasce di tamponamento tra i vuoti vetrati, che spiccavano sul reticolo bianco che segnava la struttura. L'Art Nouveau riabilita le altre tinte, che però hanno avuto, soprattutto in Italia, un ruolo tendenzialmente ornamentale, quasi mai strumento comprimario del progetto architettonico. (Foto: Crystal Palace – veduta aerea)


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