La battaglia a favore della tolleranza zero dell’inquinamento da O.G.M. delle sementi ha trovato e trova in prima linea il Ministro Gianni Alemanno, titolare del MiPAF, che con fermezza sta difendendo l’agricoltura italiana dall’introduzione di metodi produttivi inaccettabili che, di fatto, potrebbero significare la fine della stessa. In particolare, la semente convenzionale, utilizzata anche per l’agricoltura biologica, è alla base della produzione tipica nazionale: senza di essa, ogni vantata qualità e diversità, rispetto ad altri prodotti agricoli comunitari e non comunitari, risulta ingannevole e fallace.
Purtroppo, a livello governativo, abbiamo constatato più volte atteggiamenti in netto contrasto con quanto ufficialmente perseguito dal Governo tramite l’azione del Ministro dell’Agricoltura. A partire già dal “Documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2003-2006”, presentato dal Governo al Senato il 9 luglio 2002, che contiene, sul tema, valutazioni discutibili e, nella sostanza, improponibili.
Eppure è chiaro: se si deciderà a favore della coltivazione di prodotti agricoli contenenti O.G.M., non sarà più possibile tornare indietro perché, una volta inquinato l’ambiente, l’attuale assetto produttivo agricolo O.G.M. free si tramuterà in assetto produttivo O.G.M. a pieno campo, e questo anche nel caso in cui si volesse accedere ad una limitata produzione di O.G.M.
In concreto, per fare un esempio, un ettaro di mais (pianta allogama) comporta l’utilizzo di circa 75.000 semi per ettaro. Una tolleranza di 0,5% significa la presenza di 5 semi ogni 1.000 semi OGM free. Ne consegue che ogni ettaro, con simile tolleranza, renderà attivi 375 semi OGM. Gli ettari coltivati attualmente a mais in Italia sono circa 1.400.000. Moltiplicando 1.400.000 per 375 si attiverebbero, sul territorio nazionale, 500.000.000 circa di semi OGM. Ogni seme, peraltro, produce una pannocchia che contiene, in media, 700 semi di mais. Ulteriori considerazioni appaiono a questo punto superflue…
Intervistato dalla RAI (Gr2, del 13.6.2002, ore 7,30, Elio Cadelo) su questi temi, Bill Christianson, presidente dell’Unione degli Agricoltori degli Stati Uniti (a Roma per il vertice FAO di giugno sull’alimentazione), ha tenuto a precisare, con forza, che la scelta non è tra produrre liberamente O.G.M. e O.G.M. free nella stessa area agricola, perché una volta introdotti gli O.G.M. nell’ambiente, anche se in aree ristrette, la produzione in breve tempo diventerà in ogni area solo ed esclusivamente di O.G.M. E ha sottolineato che i prodotti geneticamente modificati non contribuiscono ad aumentare la produttività, indicando tale caratteristica, pubblicizzata dalle varie multinazionali, come non vera, perché questi prodotti non aiutano ad accrescere le rese.
Ancora, Christianson ha sostenuto che gli agricoltori degli Stati Uniti, Paese leader nel campo della manipolazione genetica con il 90% di OGM prodotti, non hanno ricevuto pari vantaggi e benefici: infatti, dati del Dipartimento dell’Agricoltura americano evidenziano che mentre nel 1995 gli USA detenevano il 72% del mercato mondiale di esportazione di semi (convenzionali) di soia, nel 2000, con l’introduzione degli OGM, questa quota di mercato era scesa al 58%, anche per l’allarme suscitato nell’acquirente da tale tipo di produzione. Da qui l’ineludibile necessità, tramite campagne promozionali, condotte dalle multinazionali del settore a tutti i livelli, anche sul legislatore dei vari Stati, di convincere l’utenza sull’innocuità del prodotto transgenico e, addirittura, sull’opportunità di scegliere lo stesso per i grandi benefici che arrecherebbe e potrebbe arrecare alla salute umana ed all’agricoltura.
Parole e buone intenzioni, perché mancano reali ed approfondite verifiche che le confortino.
Purtroppo vi sono altre evidenze. Ne riportiamo qualcuna. Si è rilevato che i “frammenti transgenici, su cui è stato impiantato un marker di resistenza agli antibiotici, possono essere “trasmessi” ai batteri del tratto gastrointestinale che farebbero acquisire ai microbi più diversi questa resistenza agli antibiotici. I pericoli connessi a tale eventualità (eventualità già dimostrata da numerosi studi) sono incalcolabili: rischiamo, infatti, di selezionare noi stessi nuove popolazioni batteriche resistenti agli antibiotici e dotate di una virulenza sconosciuta” (cfr. M. Bizzarri, “Quel gene di troppo”, Ed. Frontiera, Roma, 2001, 103 – 117; anche, sul tema, P. Courvalin, “Plantes trangéniques et antibiotiques”, in “La Recherque”, 1998, 309 – 315; A. Serra S. J. “Dagli OGM vegetali agli animali clonati”, in “La Civiltà Cattolica”, Q. n. 3631, del 6. 10. 2001, 10 – 24).
Peraltro, indagini sul “DNA estraneo” (sequenze utilizzate nella trasformazione di piante GM) nel tratto gastrointestinale, hanno dimostrato, diversamente da quanto si ritiene normalmente, che il 5% di tale DNA può sopravvivere, in ampi frammenti, alla digestione gastrointestinale. In particolare, il richiamato DNA è stato recuperato nell’intestino, sangue, milza e fegato di ratti dopo la somministrazione orale. “DNA estraneo” è stato, inoltre, ritrovato anche in alcune cellule di tre feti di ratto (cfr. E. Garrou, E. Pisani, C. Malagoli, “OGM: conoscerli per affrontarli”, Ed. V.A.S., Roma, 2001, 63).Indagini di questi giorni, condotte da ricercatori dell’Università di Newcastle sull’uomo (cfr. John Vigal, in “The Guardian”, del 17 luglio 2002, Londra), hanno confermato che il DNA geneticamente modificato di alcuni vegetali può essere acquisito dai batteri che popolano il nostro intestino. E poiché i vegetali transgenici contengono alcuni geni che resistono agli antibiotici, anche la resistenza degli esseri umani a questi farmaci potrebbe risultare alterata.
Più specificamente, il genetista molecolare della King’s College Medical School di Londra, Michael Antonio, commentando la ricerca stessa, si è così espresso: “Essa dimostra che si può modificare la resistenza agli antibiotici, anche se a livello molto basso, con un solo pasto e che il gene modificato del DNA si può trasferire ai batteri dell’intestino, quando tutti (ovvero i genetisti favorevoli agli O.G.M., N.d.r.) hanno sempre negato questa possibilità”.
In concreto, “…i rischi sono, a differenza di quanto avvenuto in passato per altri settori produttivi, illimitati e irreversibili, dato che non c’è modo di rimuovere le sequenze di DNA incorporate dagli organismi viventi”. In altre parole, “corriamo il pericolo di un inquinamento “genetico” che, al pari di quello nucleare, si estenderà anche alle generazioni future” (cfr. M. Bizzarri “Le implicazioni sanitarie dei cibi geneticamente modificati”, in Atti del Convegno Università “La Sapienza” di Roma, 4 giugno 2002). E “…il fatto è, (come ha sottolineato Richard Lacey, direttore del Dipartimento di “Food Safety” dell’Università di Leeds), che a fronte dei rischi illimitati che corre la salute umana….non esiste alcun valido motivo nutrizionale o ragione di interesse pubblico per produrre cibi transgenici” e, per quel che ci riguarda, sementi transgeniche.
Circa i rischi ecologici, l’inserimento di geni nelle sementi, che inducono la produzione di tossine, quali agenti pesticidi contro insetti che danneggiano i raccolti, risulta nocivo contemporaneamente anche a popolazioni di insetti benefici dei quali vengono distrutte le larve e risulta nocivo anche per gli uccelli predatori di insetti dannosi, alterando, così, importanti equilibri ecologici (cfr. W. K. Novak, – A. G. Halsberger, “Substantial equivalence of antinutrients and inherent plant toxins in genetically modified novel foods”, in Food Chem. Toxicol. 38 (2000), 473 – 483).
Aggiungasi a tutto ciò che l’introduzione di questi sistemi provoca una riduzione enorme della biodiversità. L’erosione genetica è già in uno stato avanzato nella maggior parte dei paesi che hanno favorito la produzione di OGM (cfr. J. Rifkin “Il secolo Biotech”, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, 181).
Ma gli OGM, annullando la biodiversità, fanno venir meno anche lo sviluppo della semente ottenuta in maniera tradizionale. In sostanza, bloccando, di fatto, questo processo di miglioramento della genetica convenzionale, si blocca, nel frattempo, anche il miglioramento della agricoltura convenzionale, con ripercussioni anche su quella biologica.
Prima di una scelta risulta pertanto indispensabile compiere le più approfondite ed attente verifiche che, per forza maggiore, non possono durare pochi anni, ma molti anni. Nel frattempo, è fondamentale che la Commissione Europea e il Consiglio dei Ministri dell’UE non compiano fughe in avanti, aprendo, anche se in forma limitata, le porte alla produzione di O.G.M. in Europa. Per il principio di precauzione, invece, dovrebbe essere lasciata a ciascuno Stato membro la facoltà di impedire, sul proprio territorio nazionale, la coltivazione e la circolazione di semente inquinata da O.G.M.
In considerazione di ciò, è preliminare l’invito alla Commissione Europea e al Consiglio dei Ministri citati a non snaturare le finalità del Trattato di Roma e a garantire e tutelare, prima di altri diritti, il diritto di ogni cittadino a salvaguardare, senza correre inutili rischi, la propria salute, unito a quello di godere di una agricoltura e di un ambiente tradizionali e di alimenti privi di O.G.M., riservando, all’occorrenza, ad ogni Stato comunitario, la possibilità di promuovere referendum per ottenere, in merito, il consenso dei cittadini, diretti interessati.
È necessario inoltre puntualizzare che, sull’argomento, l’opinione pubblica è stata fino ad ora in generale esposta ad un flusso ininterrotto di rivelazioni mirabolanti ed in larga misura acritiche sulle più recenti scoperte relative alle biotecnologie, con pochi tentativi di esaminare i rischi più complessi e i pericoli ai quali stiamo andando incontro. In altre parole, chi volesse passare in rassegna le notizie di questi ultimi anni e del presente, offerte al pubblico dai giornali di grande tiratura, dalla stampa economica e dai media, si renderebbe conto di quanto spazio sia riservato alle tesi dei genetisti e delle industrie favorevoli agli O.G.M. e di quanto poco spazio sia dato alle legittime preoccupazioni sollevate da un crescente numero di critici.
Il settore dell’agricoltura, che fino agli anni ’90 ha operato per far fronte alle insufficienze produttive, ha dovuto constatare che, al contrario, il vero problema da risolvere era e rimane quello di conservare e promuovere un’agricoltura di qualità, in consonanza con le richieste del mercato sempre più esigenti. Una volta raggiunta la sufficienza produttiva, e addirittura una situazione di super produzione, il settore si è accorto, con sgomento, di non avere più nessuna autonomia nel decidere cosa produrre e come produrre, per la presenza vincolante e determinante, sulle scelte da fare, del mondo agro-industriale.
In altri termini, a dettar legge, per esigenze economico – distributive, erano e sono le industrie agro- alimentari e della distribuzione, che nella quantità dell’offerta, più che nella qualità del prodotto, trovano l’unico motivo di convenienza e di crescita.
Non si assiste, cioè, ad uno scontro tra sistemi produttivi agricoli, ma tra sistemi di produzione divergenti ovvero tra il mondo agricolo e il mondo industriale e commerciale, sistemi, questi ultimi, che, di fatto, tendono ad introdurre anche in agricoltura un qualcosa di simile ad una catena di montaggio, in cui la qualità sostanziale del prodotto e il rispetto del consumatore trovano sempre meno spazio.
Scontro, dunque, di interessi, camuffato da progresso.
Interessi che non si tirano indietro da nessun tipo di scelta, pur di crescere e di imporre il proprio modo di operare.
È giunto, allora, il momento in cui l’agricoltura vera, quella tradizionale, si riappropri del suo presente e del suo futuro e stabilisca finalmente cosa è giusto produrre e come produrre, tanto più ora che il consumatore è totalmente dalla sua parte, e il successo dell’agricoltura biologica sta lì a dimostrarlo.
Ma cosa ha portato ad una simile situazione, in cui l’agricoltura europea, senza rendersene conto, ha in mano la mossa vincente per mantenere sicuro e stabile il suo futuro produttivo agricolo?
Il fatto di coloro che, varcato il Rubicone della irreversibilità attivando la produzione a pieno campo degli OGM, consapevoli di non poter più tornare indietro, vedono in coloro che non hanno scelto tale tipo di produzione un nemico mortale.
Se si dovesse infatti inconfutabilmente accertare che la produzione di O.G.M. è dannosa alla salute, all’agricoltura e all’ambiente, la produzione agricola di costoro sarebbe inevitabilmente tagliata fuori dai mercati mondiali, a vantaggio di chi ha avuto l’accortezza di compiere, per tempo, la scelta giusta, quella, cioè, di conservare la propria produzione agricola libera da O.G.M.
In sostanza, per costoro, non si tratta più di conquistare nuovi e più proficui mercati, ma di evitare la bancarotta e di garantirsi la sopravvivenza, perché solo con un assetto produttivo generalizzato e globale, convertito alla produzione di O.G.M., sarà possibile superare il temuto isolamento produttivo futuro. Insomma, una sorta di cataclisma ricercato, del tipo “crolli Sansone con tutti i Filistei”.
Peraltro, è stato reso noto che queste imprese, attive nel campo degli OGM a livello internazionale, hanno in animo di introdurre sul mercato mondiale, fin dal 2003, consistenti quantità di grano OGM e di relativi semi. Questo è emerso dalla Convention dei produttori USA di Oklahoma City, tenutasi a fine 2002, nel corso della quale i produttori europei hanno fatto rilevare che “se il consumatore europeo sapesse, giusto o sbagliato che sia, che abbiamo acquistato e vendiamo grano OGM saremmo tagliati fuori dal mercato in tutta Europa. Se volete vendere in Europa il vostro grano dovete darci assicurazioni in questo senso al cento per cento”.
Ma come ciò può accadere se già il 40% del grano USA è transgenico?
Come si vede, la separazione dei mercati accennata è già realtà, ed essa va mantenuta e garantita con ogni mezzo proprio per rispettare, tra l’altro, le forti richieste dei consumatori contrari agli OGM anche negli alimenti.
Per quanto ci riguarda, l’introduzione di sementi OGM sarebbe un autentico disastro che, tra l’altro, azzererebbe tutte le filiere produttive. Un esempio quella del grano duro, dalle sementi alla pasta.
Ciò non significa, tuttavia, che, nella materia, si debba abbandonare la ricerca, perché è proprio dalla ricerca, dai suoi risultati e dalle sue verifiche, che si potranno ottenere le risposte definitive in un senso o nell’altro, per accedere alla verità che rende liberi da ogni sorta di profittatori e prevaricatori, senza, però, dimenticare quanto contenuto nel rapporto MiPAF del 5 marzo 2002, su “Organismi transgenici e Agricoltura: il tempo delle scelte” che testualmente recita (pag. 25):
“In questo campo l’invito alla cautela non è frutto di posizioni pregiudiziali, ma arriva anche da autorevoli scienziati, primo fra tutti il premio Nobel Renato Dulbecco, giustamente considerato il padre delle moderne biotecnologie, che nel suo libro “Ingegneri della vita”, ebbe a scrivere: «Qualche seria apprensione meritano…le biotecnologie applicate all’agricoltura perché interagiscono con l’ambiente in modo non del tutto chiaro…non abbiamo la più lontana idea di che cosa possa succedere se si alterano gli equilibri della biosfera liberando microrganismi prima inesistenti, prodotti artificialmente in laboratorio. Potrebbe non succedere nulla, apparentemente per mesi o anni, e poi esplodere tutt’a un tratto qualcosa di irreparabile. È una scommessa con troppe incognite …. Anche gli scienziati devono fare i conti con esse. Non possono agire con leggerezza, quando è in gioco l’equilibrio ambientale. Devono calcolare le conseguenze delle proprie azioni e quando ciò non è possibile, in presenza di rischi imprevedibili, rinunciare all’esperimento»”.
Infine, desideriamo puntualizzare che gran parte del mondo agricolo nazionale e regionale, compreso quello pubblico, respinge con forza ogni tentativo di snaturare la tipicità dei prodotti agricoli italiani, che costituiscono la stragrande maggioranza della produzione agricola nazionale.
amab@amab.it – www.amab.it – Roma, 3 giugno 2003