La patogenesi del rimedio

Il nostro organismo ha una memoria. Non solo la memoria del cervello che ci aiuta a  ricordare le nozioni apprese e gli avvenimenti passati. 

Ha anche una memoria per le sostanze naturali, farmacologiche, alimentari, inquinanti e per le onde elettromagnetiche con le quali siamo quotidianamente in contatto.

Hahnemann l’aveva già capito nell’800, quando effettuava i test sulle sostanze vegetali, minerali ed animali che sarebbero poi diventati rimedi omeopatici. Consegnava, ad una decina di persone sane, una sostanza che dovevano assumere quotidianamente e per alcuni mesi, annotando i vari sintomi fisici e psichici che si manifestavano in quel periodo. Dopo il tempo stabilito si ritrovavano e ognuno elencava i suoi sintomi.

Se otto-nove sperimentatori  su dieci avevano accusato lo stesso sintomo, quello era valutato di terzo grado. Era considerato di secondo grado un sintomo di cinque-sei sperimentatori, di primo grado quello di tre sperimentatori. L’elenco dei vari sintomi era chiamato da Hahnemann la  “patogenesi del rimedio”, cioè la possibilità di una qualsiasi sostanza assunta per un tempo continuativo di provocare sintomi patologici fisici,  psichici o alterazioni fisiologiche.

Prendeva poi queste sostanze, le diluiva e dinamizzava (agitava con forti scuotimenti), creando così i rimedi omeopatici che  prescriveva ai pazienti per similitudine. La sostanza che a dosi continuative e quindi tossiche provocava, per esempio, una cefalea al mattino dopo colazione, veniva prescritta a dosi omeopatiche per lo stesso tipo di manifestazione, guarendo il soggetto da quel sintomo. Pensiamo che cosa succede oggi quando viene prescritto un farmaco antipertensivo per tutta la vita.

Dopo due-tre anni di terapia, la pressione, che prima si abbassava assumendo questa medicina, rimane alta. Crediamo che l’organismo sia assuefatto al medicinale e questo non funzioni più. Non è così. Il corpo, assumendo sempre la stessa sostanza, provoca la “patogenesi del rimedio”, ossia produce il sintomo che deve curare. Controllando un farmaco qualsiasi, ci accorgiamo che il sintomo che cura si ritrova anche negli effetti collaterali.

Accade  lo stesso con gli alimenti che mangiamo spesso, magari più volte nella stessa giornata.  Li digeriamo dopo cinque giorni e, non riuscendo mai ad eliminarli in modo completo, percepiamo l’accumulo e questi cibi diventano veleni, provocando dei sintomi più o meno gravi. Questi sono la manifestazione del disagio dell’organismo dopo l’eccessiva assunzione di un determinato alimento. Questa memoria la chiamiamo intolleranza alimentare. Quando aboliamo dalla dieta l’alimento, dopo un periodo di tempo che va in media da due mesi ad un anno, perdiamo l’intolleranza. Possiamo così riassumere quel cibo, avendo l’accortezza di mangiarlo ogni 6-7 giorni, concedendo al corpo il tempo di eliminarlo per evitare una nuova intolleranza.

Per quanto riguarda l’inquinamento, respiriamo i gas di scarico delle automobili, delle fabbriche e dei riscaldamenti, degli inceneritori. C’è una sensibilizzazione sempre maggiore della collettività sui danni a breve e lunga distanza provocati da queste sostanze nocive. I telefonini, i computer, gli elettrodomestici, le radiosveglie, possono produrre alterazioni metaboliche da radiazioni non ionizzanti non ancora percepibili. Forse tra alcuni anni sapremo la verità, dato che ora le ditte produttrici dei cellulari, per esempio, non hanno alcun interesse a spaventare i consumatori con rivelazioni sulle lesioni da onde elettromagnetiche. Qualsiasi sostanza, accumulandosi nel nostro organismo che ne ha memoria, ci procura quello che Hahnemann chiamava la “patogenesi del rimedio”.

 


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