The Great Wave off Kanagawa-rid

Incubo di una notte di mezzo inverno

Tutti noi abbiamo perso enormi quantitĂ  di suolo che sarĂ  sottratto per sempre ai nostri figli. Controlli superficiali e manufatti inadeguati sono fattori che entrano in sinergia con una cattiva educazione ecologica e una conduzione a dir poco miope della cosa pubblica.

Molta acqua è passata sotto i ponti e molta anche sopra.

Modenese d’adozione, a due passi da casa mia, tra Secchia e Panaro, gli argini hanno ceduto e i fiumi hanno annacquato le vigne del Lambrusco. Ahimè, però, non si sono limitati a quello, sommergendo i piani terreni delle abitazioni, dei negozi, delle fabbriche, degli uffici. E c’è stato pure il quasi inevitabile morto. Piove sul bagnato: in parte sono le zone del terremoto.

Ma se il terremoto è un evento che gl’inglesi classificano come “act of God”, un atto fuori dal controllo umano, non proprio così è per le alluvioni. I fiumi del Modenese scorrono ad un livello superiore rispetto a quello di campagna, le casse d’espansione allestite anni fa sono, con ogni evidenza, insufficienti e, soprattutto, pochi controlli vengono effettuati sugli argini. La tentazione è dire che non se ne fa nessuno.Nel caso specifico le nutrie, i roditori sudamericani ben poco saggiamente introdotti in Europa per essere scuoiati regalandoci la pelliccia di “castorino” di cui forse si sarebbe potuto fare a meno, hanno trovato presto accoglienza nei muri di terra degli argini fluviali e lì hanno scavato le loro tane. Queste hanno, e non di poco, indebolito le strutture che, come più che prevedibile conseguenza, hanno ceduto addirittura in un tratto rettilineo del fiume.

Per costume nostrano i controlli non si fanno “perché non ci sono i soldi”, salvo poi spendere cifre di gran lunga superiori per appiccicare goffe pezze ai buchi aperti dalla mancata sorveglianza, pezze che non rimediano che in maniera infinitesima ai danni di chi i danni li ha subiti in modo diretto.

Ma, restando all’acqua, l’Italia ha uno strano rapporto con quello che la scienza di un tempo chiamava elemento. Ricordo che diversi anni fa mi trovavo d’inverno nel Sud in un periodo in cui le piogge erano insolitamente abbondanti. Viaggiando con un collega del posto che si lamentava del tempo, giusto per consolarlo gli dissi che il bicchiere mezzo pieno era il fatto che l’invaso con tanto di relativamente piccola diga vicino cui stavamo passando si sarebbe riempito, assicurando a chi abitava in zona un’estate meno secca del consueto. Un sorriso: l’invaso non avrebbe potuto contenere più di metà del volume geometrico perché, eccedendolo, la diga sarebbe crollata. Dunque, raggiunto il livello critico, bisognava lasciare andare l’acqua.

Mi capitò pure, in Campania, di attraversare il fiume Sarno, ancora una volta in compagnia di un collega locale, e di chiedergli come mai il suo alveo, in quel momento asciutto, fosse una discarica di quasi ogni oggetto concepibile, elettrodomestici e mobilia compresi. Era evidente che anche la zona circostante versava in uno stato d’incuria che chiunque avrebbe potuto costatare. Gli dissi, allora, che una pioggia sopra la media e una piena avrebbero potuto causare un disastro e, neanche a farlo apposta, la pioggia e la piena ci furono e il disastro pure. Controlli superficiali e manufatti inadeguati sono fattori che entrano in sinergia con una cattiva educazione ecologica e una conduzione a dir poco miope della cosa pubblica.

Ormai la mia esperienza di consigliere comunale (manco a dirlo, di opposizione) è al termine e io ben mi guarderò dal ricandidarmi, ma i cinque anni di mandato sono stati senz’altro utili, facendomi toccare con mano ciò che avviene a livello locale, cioè con capillarità. Con le casse esauste come è il caso più o meno dovunque, il comune di cui mi occupo vende concessioni edilizie e d’insediamenti industriali con una lena che sconfina nell’entusiasmo. Poco importa se il territorio è disseminato di edifici abbandonati che nessuno recupererà, se le case nuove resteranno sfitte o invendute e se le industriette in arrivo aumenteranno la devastazione di un ambiente già devastato: ora servono i soldi. Dunque: costruire!

Nessuno pensa che sarĂ  di fatto impossibile restituire alla loro integritĂ  i terreni su cui è colato il cemento, cosicchĂ©, a livello nazionale, noi amputiamo per pura insipienza otto metri quadri al secondo dal nostro territorio. In pratica, ogni italiano – e siamo in 61 milioni – ha perso in modo irreversibile circa 350 metri quadrati di suolo. Irreversibile significa sottratto per sempre ai nostri figli.

Ora la nostra penisola pullula d’impianti cosiddetti a biomasse, un argomento che ho trattato brevemente nel numero scorso di Biolcalenda. Uno dei problemi esistenti e di cui ci si accorgerà tra una quindicina d’anni sarà che le centrali verranno abbandonate e nessuno si curerà di ripristinare, per il pochissimo che sarà possibile fare, il territorio alle sue caratteristiche primitive. Sarà fra più o meno quindici anni perché allora i contratti che consentono introiti belli grassi vendendo elettricità a prezzi insensatamente esorbitanti saranno scaduti e non ci sarà più vantaggio per i gestori a continuare le operazioni. I pochi soldi assicurati dalle fidejussioni a garanzia della cosiddetta restitutio ad integrum, nei casi in cui le fidejussioni esistano, non serviranno che a pochissimo: di fatto quasi a nulla. Così ogni volta resterà solo un rudere e una devastazione irrecuperabile a scapito della terra e delle falde acquifere.

Che la salute della terra a noi interessi ben poco è testimoniato, tra i mille esempi possibili, da quanto sta accadendo da anni in Calabria dove, per generare un’energia di cui non abbiamo affatto bisogno, avendo l’Italia una capacità produttiva ufficialmente riportata dallo Stato che supera di quattro o cinque volte il fabbisogno, si stanno velocemente distruggendo boschi indispensabili per l’equilibrio naturale, un equilibrio che comprende la salute degli esseri umani. Alberi maestosi che hanno impiegato decenni per crescere diventando ciò che sono vengono abbattuti quotidianamente per bruciare in pochi attimi. Inutile aggiungere che uno degli effetti collaterali è quanto residua da quelle combustioni: qualcosa che solo una burocrazia incompetente (e mi fermo qui) può gabellare per innocuo.

Va da sé che, tra i tanti inconvenienti gravi, privare le montagne dei boschi millenari significa necessariamente indurre un’instabilità del terreno, un’instabilità che si traduce per forza di cose in frane. Tempo fa, trovandomi proprio nella zona di cui sto scrivendo, mi sono ritrovato con un distributore di carburante situato ai bordi della strada. Calato diversi metri sotto, però, e, ovviamente, irraggiungibile, con tanto di cisterna spaccata. La Calabria, sia chiaro, non fa eccezione: il treno penzolante in Liguria fotografa icasticamente una situazione generalizzata.

Gli americani, quelli veri, cioè i pellerossa, avevano dei capitribù addestrati a prendere decisioni che, quando coinvolgevano l’ambiente, dovevano prevedere le conseguenze per sette generazioni, evitando con cura di far pagare a figli, nipoti e pronipoti le conseguenze di risoluzioni che prevedevano un uso del territorio superiore alle sue possibilità. Noi? Che c’importa! Passeranno i nostri figli a pagare.

Biolcalenda marzo 2014


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