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Ronchamp: l’ascolto dell’infinito

L’architettura della meraviglia. La meraviglia di Ronchamp, le forme diverse, le finestre strombate, l’ascolto del silenzio, la leggerezza delle pareti curvate, lo spazio irregolare.

Il profilo che si innalza sulla sommità della collina, sorprende.
Fino al 1950, quello era un luogo come altri.
Il silenzio mi coglie impreparato.
Non si può non entrare nella Cappella di Notre-Dame du Haut, realizzata dall’architetto svizzero Le Corbusier tra il 1950 e il 1955.
Prototipo della chiesa moderna, sicuramente uno dei pochi spazi sacri che vive la libertà da ogni schema precostituito e che questa libertà sembra urlarla con le sue forti e sconvolgenti suggestioni.
Silenzio colorato, mi verrebbe da dire.
Non c’è più nessuno, dentro.
Adesso immagino di sedermi sulla “greppinaâ€, la chaise longue sulla quale sedevano i filosofi greci e che tu hai ridisegnato alla fine degli anni ’20, in pelle o in pelo cavallino, così esile, elegante eppure forte, intima. Guarderò questa parete lunga che in realtà mi appare come una quinta scenografica. Palladio rappresentò le vie di Tebe nel suo Teatro, capovolgendo la realtà nel portare all’interno di uno spazio confinato gli esterni di una città.
Qui, in questa atmosfera che sa molto di palladiano, queste pareti sono interno ed esterno allo stesso momento. Non vi è più certezza.
Qui hai voluto rappresentare il Mistero.
Esiste si, lo Spirito.

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Che penetra, che avvolge, che dilata le fessure. Trasfigura lo spazio creando forme, le più varie, le più impensate.
La luce cambia, di fuori. Cambiano i riflessi all’interno, le intensità, i colori, le rifrazioni.
Questa parete ora non è più parete, ma velo che traspare, che palpita, che rende tutto Luce.
Fori strombati come le vedute dei castelli per difesa. Mura medievale, ma qui non dobbiamo difenderci dal nemico, solo da noi stessi, dalla nostra paura di abbandonarci alla felicità di un momento. Fori grandi, piccoli, con profondità scavata nella materia. Tagli piccoli, verticali, strettezze e allargamenti, cioè ritmo.
Mi viene da pensare ai tagli di Libeskind nel Museo Ebraico di Berlino, simboli di ferite di un popolo martoriato cui la luce riconsegna dignità, speranza.
O ai tagli delle raffinate architetture della scuola ticinese del ‘900, di Galfetti, Snozzi, Vacchini, Botta. Tagli che selezionano porzioni di paesaggi illuminati, quadri da gustare. Come le vedute pensate da Dalì nella sua casa di Port Lligat, che aprono non al mare ma a una fetta di mare. Sicuramente quella più affascinante.
La pianta è a unica navata, con forma completamente irregolare. E’ qui la perdizione, lo smarrimento. Ci si aspetta uno spazio razionale, rassicurante, certo. Conosciuto.
E invece c’è l’inatteso. Lo spazio irregolare coinvolge nella ricerca continua, ansiosa di una risposta che non sia, come al solito, legata al bisogno di controllo, di dominio. Di possesso.

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La cappella è a forma di timpano dell’orecchio, almeno così viene interpretato oggi: per l’ascolto della parola di Dio. Ma qui tutto sa di divino, di silenzio, di raccoglimento. Una forma informe contiene il senso dello sconosciuto, di ciò che è improbabile. E’ attrazione, non consuetudine, è ricerca non stanchezza dell’abituale. È mistero, non certezza. Una parete curvata si fa accarezzare, si fa avvicinare, non respinge. Un lato obliquo è un segmento che dà spinta, che inizia un ritmo. Lo spazio si allarga e si restringe, in un moto di contrazione-espansione. Ciò porta energia. Vita. Qui non si è più spettatori, ma attori. Non si è più nella stanchezza mai dichiarata di ciò che si ripete, ma nell’insolito, che sconvolge. Viene quasi voglia di toccare le superfici inumidite dall’emozione dei colori, se si potesse avere il Moduloir e scalarlo fino a entrare nelle aperture strombate e sedersi là, ad ascoltare il silenzio in una sorta di cromoterapia spirituale.
La luce è fioca, come nelle cattedrali medievali illuminate da torce appese ai muri spogli. Come debole era la luce nei campi di concentramento, anticamera della disperazione e dell’orrore. Già la guerra. Come avrà segnato il Maestro del Razionalismo per il quale la costruzione era solo l’immediata conseguenza di un’idea preconfigurata?
Ora, niente è più come prima. Le certezze lasciano il posto all’inquietudine. C’è bisogno di speranza, siamo nell’immediato secondo dopoguerra. Non più strutture regolari, logiche spaziali, funzionali. Adesso è lo spirito che si muove, che smuove e dilata; ogni parte chiama a un’interpretazione personale, a una presa di coscienza sulla vita e sulle relazioni umane. Chiesa che ti chiede di partecipare, non di contemplare, che ti invita a stringersi tutti insieme per ritrovare un senso comunitario del vivere, che ti sussurra che esiste una felicità ma che questa va cercata nella verità del vivere e delle azioni.
Tutto ciò che prima era chiaro e necessario, ora non lo sembra più. Il tetto non è più piano e rinverdito, ma una tela che si appoggia delicatamente su mura diverse. C’è qui un senso di temporaneità come nella chiesa nell’autostrada di Firenze di Michelucci: una tenda che simboleggia il cammino errante del popolo, una sorta di tetto provvisorio da smontare immediatamente, appena la notte passa. Sembra quasi che questo spazio che trascende si innalzi, come a lievitare, supportato dai “pilotisâ€. I tuoi pilotis. Sotto non ci passano né auto, né viabilità varia, ma una folla silente, che non vuole privarsi di questa leggerezza, di questa magia. E’come se prendessero Notre-Dame du Haut per mano, con la felicità dei cuori semplici, commossi. E non la lasciassero fuggire.
La leggerezza di questa chiesa porta al volo, a librarsi liberi nel cielo come i violini di Chagall.

Biolcalenda marzo 2014


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