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Fertilità della terra e biodiversità

La funzione dell’edaphon, il complesso di organismi che popolano il suolo – prima parte La mancanza di biodiversità comporta un degrado nella funzionalità degli ecosistemi, risultano quindi fondamentali le interrelazioni che intercorrono tra organismi e ambiente

Ciò che definiamo con il termine agricoltura rappresenta di fatto una forzatura operata sul naturale equilibrio biologico e sull’ecosistema. Basti pensare che il primo gesto agricolo in assoluto è il disboscamento, o comunque la rimozione della naturale copertura vegetale del suolo.

La modernizzazione dell’agricoltura operata dagli inizi del Novecento ha prodotto notevoli cambiamenti nel tessuto delle campagne con effetti immediati e diretti sulla qualità del cibo e sulle sue caratteristiche, sull’ambiente e sul paesaggio. L’impiego di prodotti chimici e di petrolio, nonché l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica ha di fatto rivoluzionato l’intero processo produttivo. Tramite il progresso tecnico-scientifico diventa possibile operare modificazioni nell’ambiente al fine di ottenere una maggiore produttività delle superfici coltivate. Il ciclo produttivo viene orientato verso la specializzazione in modo da massimizzare le rese e la produzione con l’obiettivo di incrementare al massimo il profitto. Vengono rimossi tutti gli elementi considerati non produttivi o di impedimento alla produzione come siepi, alberi, arbusti, zone umide ecc. Questi elementi naturali hanno un ruolo ecologico fondamentale, svolgendo una funzione centrale per l’economia della natura, e sono determinanti al fine di ridurre l’impatto operato dall’uomo sull’ambiente attraverso la pratica agricola. Oggi si parla di “servizio” che questi organi (fasce boscate, siepi, inerbimenti, zone umide) svolgono a favore dei processi naturali e della stabilità ecologica di una determinata area, mentre le siepi o le fasce boscate vengono definite infrastrutture ecologiche per via della loro funzione all’interno dell’ecosistema.

L’affermazione di un sistema produttivo razionale e uniforme ha di fatto prodotto anche una semplificazione del paesaggio con ricadute negative sulla biodiversità e sugli equilibri ambientali. La necessità di meccanizzare e semplificare le attività produttive in agricoltura, con l’unico obiettivo di incrementare le rese, determina conseguenze non sempre positive sui naturali cicli biologici e vitali. Cicli che sono alla base della vita stessa da milioni di anni. Vengono meno determinati ambienti e contesti in grado di ospitare e sostenere varie forme di vita vegetale, animale e microbica (ognuna con la propria funzione). Tramite la specializzazione ci si dimentica di assecondare il processo naturale riducendo anche di molto la biodiversità, arrivando poi a banalizzare il paesaggio e l’intero contesto agricolo. Mentre non va dimenticato che alla base dei sistemi viventi vi sono proprio complessità e diversificazione, e che questa complessità determina equilibrio e capacità di resistere a stress e avversità senza subire danni o alterazioni sfavorevoli (resilienza). A tal proposito Rudolf Steiner si espresse molto chiaramente già nel 1924 per quanto riguarda il dare e avere nei confronti della natura: «si ottiene veramente molto per l’agricoltura ripartendo in modo giusto bosco, piantagioni frutticole, arbusti e stagni con la loro naturale ricchezza di funghi, anche se si debba per questo ridurre un poco l’area complessiva del terreno messo a coltura. In ogni caso non è affatto economico sfruttare il terreno al punto che scompaia tutto quanto ho nominato, con il pretesto puramente speculativo di una maggiore superficie coltivabile. Quel che vi si può coltivare in più è dannoso in misura molto maggiore di quello che può dare la superficie tolta alle altre attività. In un esercizio tanto legato alla natura come una fattoria non è possibile trovarsi bene senza vedere in una giusta prospettiva i nessi che mette in opera la natura stessa e le azioni reciproche in seno all’economia naturale». Anche in virtù dei recenti cambiamenti climatici.

Possiamo affermare che l’agroecologia nasca proprio nel 1924 grazie al contributo di Rudolf Steiner. Oggi sappiamo che la mancanza di biodiversità comporta un degrado nella funzionalità degli ecosistemi e che per questo risultano fondamentali le interrelazioni che intercorrono tra organismi e ambiente. Queste relazioni comportano notevoli benefici, e grazie ad esse emergono nuove proprietà utili al mantenimento della vita. Dunque questa biodiversità va tutelata e garantita (diversità genetica, diversità di specie e di ecosistemi) poiché diventa funzionale al mantenimento di un equilibrio tra organismi dannosi e utili.

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Con la moderna agricoltura industriale, purtroppo, vengono a crearsi forti unilateralità e viene meno anche il numero di specie coltivate, oltre al numero di varietà all’interno di una stessa specie, a favore di poche varietà più produttive. In molti casi ibridi oppure cloni. Oggi solo 30 specie delle 7000 domesticate in 10-12000 anni di storia dell’agricoltura forniscono il 95% della domanda globale di alimenti; più del 75% della biodiversità del Pianeta è andata perduta nel XIX secolo (dati FAO, 2010). Ricordiamo, inoltre, che la concentrazione nello spazio di numerosi organismi uguali o simili crea i presupposti per la proliferazione di malattie o infestazioni, e che il ricorso all’uso di pesticidi di sintesi contribuisce ad accentuare ulteriormente gli squilibri ambientali (oltre al danno diretto ambientale).

Ma l’uniformità diventa la condizione per il “successo” e l’affermazione dell’agricoltura industriale, ed è questa stessa impostazione una delle cause dell’attuale crisi in cui versa la moderna agricoltura (impostazione priva di equilibrio dettata dalle esigenze dell’industria e delle grandi corporazioni economiche).

Ciò che è avvenuto al di sopra del suolo in maniera mirata (con la riduzione delle specie naturalmente presenti) è avvenuto anche all’interno del terreno agrario, nel sottosuolo.

Questa perdita di biodiversità all’interno del suolo è causata dall’uso di fertilizzanti di sintesi, pesticidi, diserbanti, ed è stata determinata anche dalla mancanza di rotazioni appropriate e, non ultimo, dall’uso di macchinari inadeguati e pesanti utilizzati nelle varie operazioni e nelle lavorazioni, anche attraverso l’intensificazione delle arature. Inoltre è venuto meno un adeguato reintegro di sostanza organica (ad esempio tramite humus e sovesci) con conseguenze negative sul processo di umificazione. Tutto ciò ha alterato gli equilibri dell’ecosistema agrario e ne ha generato un impoverimento biologico. In molti casi il terreno agrario è divenuto un ambiente semi-sterile e, di conseguenza, nel contesto agrario si sono create condizioni favorevoli all’espansione di parassiti e malattie sempre più virulente e invasive. Nelle colture idroponiche, poi, abbiamo il massimo grado di antropizzazione e semplificazione del processo produttivo; in questo caso vi è una omologazione estrema (la pianta non è più espressione del territorio ma risponde a standard artificiali assolutamente anonimi). Nelle colture idroponiche le piante vengono portate in una condizione di massima dipendenza dall’uomo, mentre un terreno ben dotato di humus permette alla pianta una maggiore autonomia e autosufficienza. Grazie all’interazione dell’humus vi è una formazione ideale dei tessuti vegetali ed una strutturazione ottimale dell’epidermide, che rappresenta la prima barriera difensiva. Potremmo affermare che una pianta cresciuta in un terreno vitale e ricco di humus sia più “intelligente” rispetto ad una pianta nutrita con fertilizzanti di sintesi.

Per decenni, per poter incrementare le rese, ci si è concentrati su elementi nutritivi di sintesi (N, P, K) dimenticandosi dell’importanza della biodiversità all’interno del suolo e delle sue funzioni fondamentali in quanto organo vero e proprio. E ci si è dimenticati delle relazioniessenziali tra l’apparato radicale delle piante e il suolo. Queste relazioni sono espressione dei cicli biologici e vitali, e sono necessarie per il corretto funzionamento della pianta e lo sviluppo radicale. Se la radice “lavora bene” poi la pianta potrà svilupparsi correttamente per arrivare a produrre cibo sano e di qualità. Per poter lavorare al meglio la radice necessita della complessità e abbondanza di organismi naturalmente presenti nel terreno, sarà dunque compito dell’agricoltore attento garantire questa complessità assecondando il processo naturale.

Un contributo notevole in questa direzione è stato fornito già a suo tempo da Alfonso Draghetti nella sua opera Principi di fisiologia dell’azienda agraria (1948), dove si mette in evidenza che l’azienda biologica rappresenta un’entità vivente dotata di funzionalità autonome la cui vera essenza è la sostanza organica. Nell’agricoltura biodinamica questa sostanza organica deve essere portata al massimo grado di evoluzione (humus), in modo da poter svolgere al meglio e a lungo termine la propria funzione.

Uno degli errori della moderna agronomia industriale è stato quello di considerare la pianta come una unità a se stante, dimenticando le relazioni con i molteplici microrganismiad essa correlati. Gli equilibri naturali anche qui si basano sulla complessità e sull’abbondanza delle forme viventi (biodiversità).

La moderna agricoltura industriale, al contrario, tende ad una semplificazione e ad una riduzione delle specie privilegiando la singola coltura. Questo modo di procedere genera dei “vuoti biologici” che favoriscono la proliferazione di determinati organismi i quali, poi, possono prendere il sopravvento e diventare parassiti, infestanti, patogeni ecc. Ad una pressione selettiva molto forte corrisponde poi una reazione conseguente.

E, purtroppo, è stata sottovalutata l’importanza delle popolazioni batteriche del terreno: quelle che entrano in simbiosi e associazione con le piante e quelle che partecipano alla degradazione e all’umificazione della sostanza organica.

Con la coltivazione si va ad alterare quell’equilibrio che andrebbe ad instaurarsi naturalmente tra pianta e microrganismi, e tra pianta e ambiente. La moderna agricoltura intensiva ha esercitato una pressione notevole sull’ambiente, determinando la sparizione di innumerevoli specie tra cui molti microrganismi essenziali. Si stima che gli attuali metodi di coltivazione abbiano eliminato più del 90% delle specie microbiche presenti nella rizosfera (in particolar modo micorrize).

Ma è certamente possibile il ripristino di agroecosistemi equilibrati, stabili e ricchi di vita grazie all’agricoltura biodinamica e ad una sua applicazione integrale, per cui è possibile conciliare produttività, ecologia e tutela delle risorse naturali.

Oggi l’agricoltura è divenuta talmente specializzata che in alcune Province della Pianura Padana si rendono necessari incontri tematici per discutere di una singola infestante (divenuta invasiva) in relazione ad una specifica coltura, come nel caso della proliferazione dell’Amaranto all’interno dei campi di Soia, conseguenza delle pressioni selettive determinate dalle pratiche agricole industriali. Queste pratiche intensive hanno aperto la strada allo sviluppo di infestazioni di dimensioni precedentemente sconosciute, sia come intensità che come numero. In pratica si assiste ad una specializzazione di determinati patogeni che è la conseguenza di una impostazione unilaterale e miope della pratica agronomica.

Per garantire la vitalità del terreno, oltre alle buone pratiche agronomiche, occorre adottare anche attrezzature e macchinari realizzati secondo criteri ben definiti. Occorre la giusta meccanizzazione, ed occorre la sensibilità dell’operatore nel gestirla.


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