Il mese scorso, verso fine aprile, mi ha particolarmente colpito la vicenda del piccolo Alfie Evans, il bambino inglese colpito da una grave malattia neurologica degenerativa, al centro di un vasto e variegato movimento di opinioni sull’opportunità di staccare le macchine che lo tenevano in vita. Problema comunque già superato perché il bambino è morto il 28 aprile, dopo cinque giorni che i medici avevano staccato la spina.
E’ uno di quei casi che, sempre più spesso, mettono in discussione le nostre certezze e ci obbligano a ripensare il nostro modo di rapportarsi alla vita. Di fronte alle argomentazioni contrapposte che tendono a giustificare le varie prese di posizione a favore o contro, ci si sente impreparati e disorientati e si corre il rischio di lasciarci convincere da chi, per capacità di persuasione, sa suscitare delle forti emozioni, ma a scapito di un modo di ragionare libero e obiettivo.
Se il soggetto in questione fosse stato in grado di esprimersi non ci sarebbero dubbi: alla fine di tutte le considerazioni resterebbe valida e vincolante la sua decisione in base al principio sacrosanto della libertà di scelta (anche se purtroppo attualmente viene messa in discussione anche quella).
Ma in questo caso non è possibile, bisogna affidarsi alla decisione di altri, genitori, medici, giudici, istituzioni, società civile. Come si fa a decidere in mezzo a tanti pareri spesso discordanti?
Secondo me bisogna ricondurre il discorso alle responsabilità individuali. Casi come questo sono il banco di prova della nostra capacità di scelta e c’è solo un criterio per stabilire se il nostro agire sia quello giusto. Bisogna semplicemente chiedersi: lo sto facendo per me stesso o lo sto facendo per il bene dell’altro? Lo sto facendo per soddisfare i miei bisogni di protagonismo o lo sto facendo perché penso veramente che sia la soluzione migliore per l’altro? In definitiva, lo sto facendo per egoismo o per amore?
Non sempre però sappiamo distinguere bene fra i due atteggiamenti, oberati come siamo da una serie di condizionamenti culturali, religiosi, ambientali, ma forse è questo lo sforzo che dobbiamo fare in questa epoca: sondare il nostro cuore e riconoscere con umiltà e coraggio quale sentimento muove il nostro agire. Certo una volta era più semplice: bastava rivolgersi all’autorità costituita, religiosa o civile, e si aveva la risposta. Era un modo di delegare ad altri le nostre decisioni e più di qualcuno, attualmente, ha nostalgia di quel tempo. Vedi i tentativi striscianti di limitare le libertà individuali, vedi il rifiorire di forme autoritarie e dittatoriali nel mondo.
Ma i tempi sono cambiati, le autorità costituite hanno perso credibilità e abbiamo molte più libertà di una volta; se, da una parte, questo è più gratificante, dall’altra, però, ci mette di fronte alla necessità di pensare e decidere autonomamente. E questo, con l’evolversi della scienza e della tecnologia, accadrà sempre più spesso.
Sempre più spesso saremo posti di fronte a situazioni delicate che richiederanno tutto il nostro impegno per districarsi fra gli interessi contrapposti.
Ritornando al nostro caso, se tutti i protagonisti della vicenda hanno agito per amore il piccolo Alfie sarà stato l’agnello sacrificale per mettere alla prova i sentimenti di chi gli stava attorno.
Se, invece, qualcuno avrà agito per egoismo, dovrà assumersi la responsabilità , non di fronte agli uomini, ma di fronte alla propria coscienza. In ogni caso il bambino Alfie avrà svolto la sua missione di stimolare nell’umanità prese di coscienza sempre più responsabili.