Andar per erbe

“Brieve racconto di tutte le radici di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”, è un libro scritto da Giacomo Castelvetro, esule in Inghilterra, nel 1614. Si tratta di una rassegna della gastronomia vegetale del tempo.

 “non è assai (cioè non è sufficiente) aver molte erbe per fare che l’insalata riesca buona“; importante è saperla preparare. “Si deve saper muovere istintivamente e insistentemente in qua e in là le erbe in un ampio recipiente, senza scolarle dal recipiente (perché altrimenti la sabbia depositata sul fondo tornerebe a galla), asportarle con le mani, scolarle dall’acqua, asciugarle“.

Poi “si pongono nel piatto ove prima un poco di sale sia, e in porvi le erbe si dèe andare pargendo sopra sale e, dopo, l’olio, con larga mano; ciò fatto, si vogliono rivolgere molto bene con le dita ben monde. Overo col coltello e con la forchetta, ch’è più graziosa maniera; e questo si fa acciò che ogni foglia pigli l‘olio, e non fare come i tedeschi e altre straniere generazioni fanno, li quali appresso aver un poco l’erbe lavate, in un mucchio le mettono nel piatto e su vi gittano un poco di sale e non molto olio, ma molto aceto, senza mai rivolgerla” perciò non si deve usare l’aceto, poi l’olio, perché “l’erbe di già abbeverate d’aceto non possono pigliar l’olio“; inoltre si deve mescolare molto bene perché altrimenti “la maggior parte di quelle si rimangono pura erba, buona da dare a’ paperi“.

Sono rituali che inducono a incontrare, oltre che lo spazio fisico della casa, i luoghi ove avveniva la preparazione del cibo. “Sono luoghi, scriveva Mario Turci, che si caricano di significati e quindi di valore simbolico quando l’uomo ne traccia concettualmente il centro e le soglie, quando ne definisce un dentro e un fuori, quando ne delimita i confini… Se dentro rappresenta il mondo materiale, reale e conosciuto, fuori è l’ ‘ignoto, il trascendente, il luogo “altro” … ove ci sono le presenze da cui difendersi con il talismano o con il rito, e altre che, pure inquietanti, dovevano venire alla casa nelle date e nelle occasioni a ciò deputate.

Nella buia notte di S. Martino, 11 novembre, nella gelida e inquietante notte dell’ Epifania, in quella enigmatica, chiassosa, allegra e festante dell’ultimo giorno di carnevale con i volti mascherati di uomini e di ragazzi, che si affacciavano alla finestra, e con mani estranee bussavano alle porte per chiedere a chi era dentro di aprire la porta di casa sul mondo fuori, simbolicamente e ritualmente accompagnato da uno strepitio di suoni, canti, filastrocche. Fuori era il frastuono, dentro, nella cucina della casa era il focolare, il paiolo, la catena, il camino che collegava la terra al cielo. All’interno vi è quell’arcaico spazio dell’affetto e dell’anima, che può essere riscoperto anche con il contributo di un insieme di minuscole erbe che, nel gettare la luce anche su un solo dettaglio, su una circostanza, o su uno stato d’animo consentono di comprendere meglio verità ed errori popolari racchiusi anche nei proverbi, nelle tradizioni, nelle feste, nei documenti, nell’iconografia, nella toponomastica, nel lento scorrere del tempo quotidiano, diventano segno di un numero imprecisato di generazioni e di saperi radicati tra quei sentieri di parole e quei tortuosi arabeschi verdi ricchi di ruralità e che inducono un incontro, un sentimento, una sorpresa, una nostalgia, un rimorso mai sopito, un sentimento crudele, ma anche un giuramento infranto, un impegno disatteso, una presunta ingiustizia.

Sono sufficienti solo alcune di quelle piante, che venivano usate, e che qualcuno ha avuto l’accortezza di raccontare, prima che venissero dimenticate del tutto, stemperando, nel nostro quotidiano, lontani brandelli di storia, per lunghi anni sospesi in un anonimato tra un po’ di nostalgia, di fiducia, di spensieratezza, tanta memoria e altrettanto oblio, sapiente nello scordare ciò che è meglio non trattenere, nella testa e nel cuore.

Queste erbe si lasceranno osservare solo se si procederà con calma, senza desideri predatori, abbandonando pregiudizi e preconcetti, ritrovando le zolle, un tempo gonfie di acqua, e un cielo, che smarritosi troppo in basso, le intrideva di sogni, di delusioni e di speranze. Sono segni minimi che consentono di recuperare l’incontro con una realtà, per lo più erosa dalla consuetudine e di aggregare gli infiniti tasselli del composito mosaico della vita quotidiana contadina ricca di timidi ricordi, di sentimenti essenziali, di antiche suggestioni e di storie che non finiranno mai perché dove finisce una storia ne comincia subito un’altra anche se in fondo nessuna storia finisce mai.


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