Museo di fisica e di esperienze variato, e decorato di osservazioni naturali, note medicinali, e ragionamenti secondo i principii de’ moderni è il titolo di un libro del 1697. Vi si può leggere la cronaca di un giorno in cui uno scrittore osservava che in un campo di sua proprietà erano entrati delle donne e dei ragazzi:
” li quali coivano roxe, romexe, pancuario, stupion, patarina, foje de navon … et ogni altra coxa insieme coxivano con un pocho d’olio o grasso et con axè, acqua in la padella e sal, de questo ne mangiavano… prendono anco fruti de spini bianchi, li siccano e macinano et con quella farina ne prendono tre parti e una di farina di formento e fanno pane … multi putti sono per boscaglie alla ricerca di detti frutti …”.
Venivano consumati sotto forma di zuppe o di insalate.
L’insalata, cotta o cruda, era al centro di un ampio e duttile sistema alimentare. La si preparava, oltre ai legumi, come fave e piselli, con ogni sorta di herbette. In un ricettari del XIV secolo si legge che l’insalata mista era consigliata prepararla con “lattuga, indivia, buglossa, portulaca, malva, radicchio, sassifraga, pimpinella, acetosa, menta, nepitella, finocchio, prezzemolo, crescione, origano, cerfoglio, cicoria, lancedine – dette dai medici rispettivamente tarassaco e arnoglossa, morella, fiori di finocchio e parecchie erbe aromatiche”, lavate, scolate e ben condite.
Sono erbe che sollecitano la curiosità , e il recupero di alcuni “segni”, che mai come in questo caso, possono indurre a percepire voci e colori, uomini e cose di un piccolo anonimo mondo spesso racchiuso in uno stato d’animo, in un sentimento, in un insieme di storie, che appartengono a una tradizione locale, non sempre rigorosamente archiviata e documentata, ma sempre ben sedimentata in una lunga intimità di solitudini racchiuse tra anonime mura, piccoli orti, filari di gelsi capitozzati e che nel tempo si sono trasformate in nostalgie, inquietudini, turbamenti, disagi, rassegnazioni che hanno finito per assomigliare sempre più a ignare attese.
Frammenti di vita che sono rimasti immobili fino a pochi anni fa, allorché il benessere ha cancellato la vocazione agricola di alcuni territori, ha mutato le case, il paesaggio, la mentalità . Se poi le erbe le coniughiamo alle realtà naturalistiche che si accompagnano, collimano e sfumano l’una nell’altra, non si può non andare a ritroso nella nostra memoria che sollecita ricordi di un microcosmo cresciuto nell’ombra gelosa dei cortili attorniati da dimore sospese nell’immobilità del tempo, vissute da gente semplice, disperatamente affettuosa, che racconta miserie, dolori, solitudini, la fatica di vivere e l’angoscia per il futuro spesso in balia di lunghi e rigidi inverni, fra zolle di terra raggelate in ogni piega e impregnate di acqua a mezza strada fra il dolce e il salmastro, alternate ad estati secche e afose, permeate da una calura che avvolgeva e accarezzava tutto come in un gesto d’amore sorpreso. Ora questi luoghi, sgualciti dal tempo, ricchi di sporadiche terre coltivate, sono in grado di suggerire, attraverso queste “herbe bone”, memorie screziate di nostalgie, di spazi e di tempi posti sulla cresta della memoria e della speranza, con uno sguardo rivolto a quella vita e a quel passato, piuttosto che ad un presente senza terra sotto i piedi e con addosso un cronico e inguaribile esilio. Spesso alcune sono state definite “omnimorbia”, cioè buone per ogni cosa e perciò anche per allontanare tutti i mali; quindi indispensabili per i medici, i guaritori, le donne che preparavano zuppe indicate per bambini ed anziani e per il contadino, cui spesso bastava un cattivo raccolto per essere obbligato a mangiare erba. Forse mai come in questi casi attorno a queste minime realtà botaniche si sono intrecciati il sapere del cuoco, dell’erborista, del mago, delle donne di casa e le varie modalità d’uso erano un segreto da custodire e tramandare per disintossicarsi, guarire, prolungare la vita poiché la “Salus erat in sanguine” e le piante erano un serbatoio cui attingere per curare il corpo e l’anima.
Ora queste erbe che stanno al di là del vetro trasparente della finestra, spesso su un terreno vago, pieno di storie, di case, di strade, di piazze, di gente che non è più viva. Un mondo visibile su cui si adagiano storie invisibili, che aiutano a esplorare un’area deserta del cuore umano e che chiedono che il loro nome non sia dimenticato da parte della storia locale.