L’importante è “non allarmare”. Di fronte alle continue catastrofi provocate dalla mancanza delle più elementari misure di sicurezza, l’unica preoccupazione è quella di non informare per non creare allarmismo.
Davanti a certi avvenimenti, davanti al ripetersi di certi avvenimenti come un tormentone da avanspettacolo, confesso che non ce la faccio a prendere un atteggiamento coerente.
Per un bel po’ di tempo i notiziari radio e TV si sono aperti con la “catastrofe del Golfo del Messico” : in aprile una piattaforma per l’estrazione del petrolio grande quanto un paio di campi da calcio scoppia, s’incendia, manda arrosto undici persone e comincia a schizzare nel mare un fiume di petrolio. Quanto? E chi lo sa?
La British Petroleum che gestiva il pozzo viene subito accusata di non aver predisposto i sistemi di sicurezza opportuni. Qualcuno allarga le braccia e dice che quei sistemi erano troppo cari: mezzo milione di dollari, cioè l’equivalente di quanto la BP pagava per l’affitto giornaliero della piattaforma. Cari: dunque, il gioco non valeva la candela.
Ancora una volta, come sempre, si è stati di fronte alla più totale impreparazione al cospetto di un incidente che, se è capitato, doveva essere previsto dagli “esperti” perché, altrimenti, esperti non sono. E, invece, come sempre, abbiamo assistito allo spettacolo del dilettantismo più disarmante.
Improvvisando goffamente, si sono tentati vari rimedi, compreso quello di usare degli agenti chimici che legassero il petrolio per farlo affondare, con questo dimostrando che il dilettantismo era mescolato ad una robusta ignoranza o – fate voi – incoscienza. Per arginare gli effetti devastanti del petrolio in superficie si aggiungeva altro inquinante, si faceva affondare il pastrocchio ottenuto con la strage conseguente di quanto incontrava lungo il percorso e, vivaddio, a fine viaggio tutta quella porcheria si depositava in fondo al mare, sterilizzandolo per omnia saecula saeculorum. Insomma, la classica pezza peggiore del buco, ma forse niente davanti al consiglio russo di far scoppiare una bomba atomica per bloccare la fuoriuscita dell’oro (?) nero.
Ora la BP dovrà pagare i danni, ed è qui che comincio a non riuscire più a reggere un atteggiamento coerente di desolazione ma mi viene da ridere. Qualcuno mi spieghi se una catastrofe di quella portata è valutabile in termini di denaro. E, se sì, quanto denaro occorrerebbe davvero per ripagare le specie animali e vegetali distrutte per migliaia di chilometri (ahimè, la Corrente del Golfo non ci aiuta), le spiagge trasformate in carte moschicide, i pescatori che dovranno magari diventare benzinai, e quant’altro?
L’altra risata amara, anzi, amarissima, deriva da una lunga e dolorosa esperienza di ficcanaso nei vari progetti di produzione energetica di cui il petrolio è spesso il protagonista senza, però, essere il solo.
Andandosi a leggere i documenti, non esiste accenno serio di possibili incidenti previsti: tutto funzionerà alla perfezione e a pieno regime senza intoppi. Le eventuali contromisure per eventuali incidenti sono sempre limitate a banalità e il personale non riceve istruzioni utili a fronteggiare emergenze che, si giura, non accadranno mai. Anzi, quando qualcuno si permette di porre domande sull’argomento, viene accolto con risatine di sufficienza da parte di chi “la sa lunga”.
Poi un inceneritore prende fuoco e nessuno sa che cosa fare se non evitare di “allarmare” la popolazione. Come si fa? Semplice: non se ne parla o, se la notizia trapela, si taroccano le analisi ambientali. Occhio non vede, cuore non duole. Del resto, in altro ambito, non si era fatta la stessa cosa a L’Aquila con tutte quelle scosse di terremoto che avevano preceduto il botto grosso? Ma non disperiamoci: non siamo soli. Quando crollarono le Torri Gemelle a New York, l’EPA, l’ente americano che tanto assomiglia alla nostra ARPA, non avvertì né i soccorritori né la popolazione del pericolo gravissimo insito nella presenza delle polveri sottili ed ultrasottili generate dal crollo. La conseguenza è che oggi i malati sono un numero imprecisato, ma sono tanti, e che si continua a far finta di niente. E i morti? Non è dato sapere perché non esiste nessuna tracciabilità.
E le centrali nucleari? Provate a chiedere a qualcuno dei tecnocrati televisivi o agl’imprenditori che l’impresa la fanno con i denari altrui (nostri) e vi sentirete rispondere, con la solita aria da saputelli, che le tecnologie odierne…
Ebbene, quelle tecnologie, quelle disponibili oggi per le centrali in fieri, non sono altro che ritocchi minori a quanto esiste già da anni, e ciò che esiste da anni ha dato prove di sé tutt’altro che tranquillizzanti. Nella Francia presa ad esempio dai tifosi dell’atomo spaccato per l’alto numero di centrali gl’incidenti sono all’ordine del giorno. Anche laggiù – ça va sans dire – si è molto discreti e si preferisce vivere una vita gioconda senza essere disturbati da notizie sgradevoli. Della vecchia Russia degli Anni Cinquanta non sappiamo nulla, ma i sospetti d’incidenti gravissimi sono pesanti. Per il resto, basterebbe scorrere la lista dei guai che non è stato possibile nascondere del tutto, dal reattore statunitense Argon nel 1952 che uccise quattro persone fino ad oggi, transitando per Sellafield, Three Miles Island e Chernobyl.
Chi ha letto il mio libro Il Futuro Bruciato sa di come venivano (e vengono?) “smaltite” le scorie radioattive e di come, ad oggi, non esista alcuna tecnologia non solo disponibile ma in vista per ovviare al problema, un problema che non va posto a chi conta e, ahimè, decide, perché li si irriterebbe. Chi ha avuto più esperienza di noi nel settore ha nascosto tutto sottoterra, in cavità naturali, in miniere abbandonate, nel fondo del mare, in paesi del Terzo Mondo dove per quattro soldi si comprano le morti al posto nostro. Chi ha avuto più esperienza di tutti, in questo caso gli USA, affrontando spese di decine di miliardi di dollari, ha fatto un bel tunnel lungo diversi chilometri in una montagna del Nevada chiamata Yucca Mountain e ci ficcherà dentro le sue scorie dopo avercele trasportate, nessuno sa ancora come. Non tutte le scorie, naturalmente, perché parliamo di un po’ più di 100.000 tonnellate di roba e ci vuole ben altro. Comunque sia, la montagna sta in una zona sismica (la quarta per importanza negli Stati Uniti) e ciò che ci metteranno dentro è destinato a scaldarsi continuamente, parola di Carlo Rubbia che, in fondo, un Premio Nobel per la Fisica se l’è portato a casa. Si scalderà fino a che temperatura? Che cosa succederà se…
Ma non date ascolto ai catastrofisti: andrà tutto benissimo. E poi, i Maya non ci hanno avvertito che il mondo finirà nel 2012? Dunque, di che ci preoccupiamo?